IL COPRILETTO – 1^ parte
AUGUSTA – Già in questo sito, anche se in modo succinto, dedicammo uno spunto su alcune usanze dell’ antica società augustana, sotto un certo aspetto esilaranti, ma rigorose e quasi spietate dal profilo pratico. Proponiamo la prima parte col rivivere una usanza, giunta ai nostri giorni, immersa, purtroppo, nella evoluzione del costume, nel mutamento delle condizioni sociali. Il tema riguarda “IL COPRILETTO”. Va subito detto che si tratta di un capo di corredo che le fanciulle del tempo preparavano con pazienza e letizia, sin dall’età della pubertà. A prima impressione sembrerebbe un argomento banale. Ma così non è, perché in quell’epoca, e in particolare ad Augusta, IL COPRILETTO rappresentava un simbolo di orgoglio delle ragazze che si apprestavano a preparare il proprio corredo di nozze. Dedicavano giorni, mesi e spesso anni nella preparazione, attraverso un ricamo variegato, intrecciato di fili di seta colorati che decoravano il “lenzuolo”, ovvero il copriletto. Svariati erano i motivi finemente riprodotti, che variavano da soavi figure a splendide composizioni floreali. Quando il copriletto era completato, veniva quindi scrupolosamente e con cura riposto nel “cascione”, il classico baule siciliano, insieme agli altri capi di corredo. Ma, come si arrivava ad imbastire il copriletto: come detto, le ragazze non più tardi dei 13 anni frequentavano il laboratorio della “mastra”, ovvero la maestra di ricamo, che le guidava attentamente e con rigore sino al completamento del capo. Frequentavano assiduamente le lezioni, recandosi alla “mastra” di buon mattino, per riprendere subito dopo il pranzo e attardandosi spesso sino a sera inoltrata, prelevate poi da parenti. Invero, era impensabile che una ragazza, allora, andasse da sola al buio. E’ chiaro, quindi, che il copriletto assumeva nella società del tempo, una notevole considerazione, anche perché, forte era il desiderio sia delle fanciulle, che delle loro famiglie, di arrivare all’ esposizione della “coperta” al passaggio della processione del Corpus Domini. Infatti il capo veniva steso o sul balcone, per chi abitava al primo piano, o sulla facciata della casa a pianoterra. L’esposizione, secondo l’usanza, non solo costituiva un atto di devozione, ma era anche motivo di compiacimento, sia delle ragazze, che della famiglia, che il copriletto venisse ammirato dalla gente. Certamente, nell’occasione, non mancavano le accidiose malelingue delle “comari”, nel criticare in bene e in male. Certamente, non tutti i lavori presentavano le stessa medesima ricchezza, distinguendosi dall’opulenza del ricco feudatario, dalla modestia dell’artigiano, o dalla soave povertà del contadino. Purtuttavia, non si poteva loro negare l’orgoglio di quella esposizione, che era il frutto di tante giornate di pazienza e di lavoro, allietato dal pensiero che quel giorno, prima ammirato dalla gente e poi, alle nozze, a coprire il letto nuziale. Non si esauriva qui il percorso del copriletto, perché esso raggiungeva il suo epilogo nella “cunzatina du lettu”, vale a dire quando i parenti, tutte femmine, dei nubendi, alcuni giorni prima del matrimonio si recavano nella casa degli sposi e procedevano alla “cunsata”. Stendevano lenzuola fresche e odoranti di gelsomino, poi la coperta più bella e, infine, il copriletto smagliante in tutta la sua bellezza. Nella diversità della fattura del copriletto, tuttavia esso rimaneva sempre un capolavoro di abilità delle mani della fanciulla che aveva dedicato tanta pazienza, passione e amore. L’origine di questa usanza affonda le sue radici in un tempo molto lontano prendendo, nel corso dei secoli, anche influssi grechi e spagnoli. E’ arrivata ai nostri giorni, nella sua autenticità, attraverso la tradizione orale, cioè trasmessa verbalmente da generazione in generazione, da famigli in famiglia.
Francesco Migneco