Le tre “maledizioni” dei poeti Siciliani

Federico II, fondatore di Augusta, voleva creare una lingua unitaria per aggregare politicamente i popoli a lui soggetti, ma…

Federico-II-.jpgFederico  II di Svevia,  fondatore di Augusta, stupor mundi, avviò una serie di riforme che non lasciarono nulla d’intentato ai fini di un risanamento morale, politico, economico, sociale e letterario del suo regno di Sicilia, fulcro del più ampio progetto imperiale, già in atto ma anche messo in crisi dalla lontananza della Germania, madrepatria, della quale l’isola mediterranea tendeva a sostituire la centralità in modo inversamente proporzionale alla coesione dell’Impero: tanto più la Sicilia era il centro della corte quanto più la corte stessa si frazionava finendo con l’esaltare la sua nazionalità relativa rispetto all’assolutezza del potere federiciano. In altre parole, Federico, nella sua riforma dell’Impero, seppe comprendere, anticipandola, la direzione che avrebbe preso la storia moderna d’Europa due secoli dopo, con la formazione degli Stati nazionali sulle ceneri degli ormai sgretolati poteri sovra-statali, Impero e Papato. Tanto più quanto proprio il pontificato romano si intrometteva geograficamente nella già debole coesione territoriale fra la Sicilia e la madrepatria tedesca. Questo, forse, comportò l’esasperata ricerca di un’identità linguistica cui Federico diede luogo e che pareva oltrepassare i consueti confini della letterarietà per configurarsi come una vera e propria progettualità politica. Dietro la poesia siciliana del Duecento si cela una fortissima, appunto quasi esasperata, ricerca della novità e della radicalità di una lingua che la rappresentasse e che a un tempo sapesse altresì rappresentare la presenza aggregatrice di più istanze politiche, all’apparenza disomogenee e disarticolate. Quindi, dietro questa ricerca più che letteraria si nascondeva ancor più la ricerca di un’identità politica statale che continuasse a dissimulare la centralità tedesca e di conseguenza la potenza imperiale, ormai – era un dato di fatto – vacillante. I poeti della scuola siciliana finirono col veicolare un progetto politico e in ciò fu plausibile configurarli come appartenenti a un movimento letterario, che di fatto non ci fu mai, ma che ben dissimulava a sua volta l’idea di una intenzionalità comune – a volte consistente anche nella preterintenzionalità -se non nelle cause, certamente negli effetti. E questa può essere intesa come una sorta di prima “maledizione” che cadde su questi poeti, asserviti a un progetto comune e assorbiti da esso, che li rese organici a una temperie culturale e storica, in cui rischiarono di perdersi i tratti spontanei e individuali, per annegarli tutti dentro una presunzione di scolasticità che altro non fosse che l’adesione anche involontaria alle necessità del dominus. Collegabile a questa è la seconda e determinante “maledizione” che rimane aderente a un fatto più squisitamente artistico, linguistico e letterario: la traduzione toscana che ne favorì la tradizione nella misura in cui ne spense l’originalità della trasmissione e, più erano accattivanti le liriche tradotte, più la loro trasmissione ne tradiva il testo originale rivestendosi di un  toscano che grazie al siciliano rifatto si faceva illustre e consegnava sé stesso a futuri destini prestigiosi.

Lo “stil novo” è figlio di questa tradizione siciliana non soltanto nei contenuti (dei quali la matrice comune risale all’arte trobadorica provenzale),  ma,  soprattutto nelle forme che imprigionò, violentò, lasciò a una posterità presto dimenticatasi del siciliano “illustre”. Uno stuprum mundi dunque avvenne nei confronti di tutta una tradizione (da cui andarono esenti pochissimi commoventi testi, resisi, dunque, uniche imprescindibili e preziosissime testimonianze di una lingua letteraria unica e irripetibile). Lo scopo politico di Federico fu in parte raggiunto ma il contrappasso della perdita di un’identificazione linguistica e letteraria, lo “stupro” di un mondo linguistico e figurativo immenso e unico, fu l’inevitabile contraltare. Se la prima “maledizione” è di tipo storico (l’asservimento anche involontario e preterintenzionale di una ricerca linguistica e tematica originali a un progetto politico) e la seconda di tipo artistico (la sostituzione di una lingua da parte di un’altra che ne prese il posto predestinandosi allo stesso ruolo egemone nei destini della letteratura nazionale), la terza “maledizione” è di tipo meramente filosofico: la necessità di cantare l’amor “fino” (raffinato, astratto, insensibile, assoluto) sulla scorta di una necessaria imitazione dei provenzali ma rafforzata dalla contingenza di un’annessione linguistica, quella toscana di cui si è detto, che ingenerava l’idea di una poesia artificiosa e incapace di relativizzarsi alle modificate condizioni sociali dei poeti stessi e della corte che li circondava. La poesia siciliana rifatta dai toscani sembrava esemplificare il modello di derivazione trobadorica e indugiare oltremisura verso forme di astrazione platonica, che anticipavano decisamente e unilateralmente la successiva stagione stilnovistica, nella misura in cui la lettura di quel poco che ci è pervenuto in originale siciliano lascerebbe intendere una più congrua e perspicace commistione di platonismo e aristotelismo (la cui tradizione era forte in Sicilia grazie all’inevitabile forte presenza araba), favorita da una aderenza maggiore alla res consistente anche nel volgare originario, che farebbe di questa poesia siciliana addirittura una degna anticipazione di temi petrarchisti e quindi della futura tradizione poetica italiana dominante per almeno altri due secoli e mezzo. La maledizione di una lettura unitariamente platonizzante (che già di per sé era intendibile come una “maledizione” almeno parallela e convertibile in quella opposta di una lettura unicamente sensuale e aristotelica di questa, quindi dirittamente “maledetta”) si sommava alla perdita di un’identità composita ed equilibrata della stessa, che sapesse contemperare l’idealismo asessuato e il realismo carnale nella stessa dimensione poetica, quella dei siciliani, ridati alla loro vera e pregnante essenza letteraria e non solo.

Francesco D’Isa