ESCLUSIVO/ Pubblichiamo a puntate un saggio inedito del nostro collaboratore Giorgio Càsole, docente di Lettere al liceo Mègara di Augusta
IL 27 gennaio 1998, in occasione della celebrazione del “giorno della memoria”, istituito ex lege qualche anno fa, gli studenti dei tre licei cittadini (classico, scientifico, socio-psico-pedagogico) possono assistere, nell’aula magna della cittadella degli studi, alla proiezione d’un bel film con Robin Williams protagonista, l’attore che ha portato al successo molti film quali L’attimo fuggente, Mrs Doubtfire, Al di là dei sogni, ecc. Il film proiettato agli studenti, dal titolo Jacob il bugiardo, non ha avuto grande risonanza nel circuito commerciale, come altri che, sostanzialmente, hanno trattato lo stesso argomento, quali Schindler List, Train de vie e, soprattutto, La vita è bella del nostro attuale grande comico d’Italia, Roberto Benigni: l’argomento, ormai è intuitivo, è quello della Shoah, parola ebraica oggi usata (e preferita dagli stessi ebrei) in luogo di “olocausto”.
Il sostantivo olocausto rinvia ai riti sacrificali che, presso le antiche religioni greca ed ebraica, venivano celebrati in onore della divinità e in cui la vittima era completamente bruciata, mentre Shoah, che significa “catastrofe, calamità” viene usata con valenza diciamo così, neutra: lo sterminio, il genocidio di sei milioni di ebrei, voluto e pianificato da Hitler durante gli anni bui del nazismo in Germania e nei territori occupati dalle armate hitleriane (ivi compresa l’Italia), non fu certamente una catastrofe naturale né provocata dagli uomini per sacrifici divini, anche se Hitler potrebbe essere interpretato come una sorta di Anticristo, in onore del quale furono innalzati templi reali e metaforici, che dovevano essere occupati e frequentati esclusivamente da quegli appartenenti alla razza superiore, alla cosiddetta razza ariana, una vera e propria casta di eletti, che doveva ripopolare il pianeta e doveva essere servita dalle altre etnie, dopo che ci si era liberati dei pària di turno (ebrei, appunto, polacchi, zingari, omosessuali).
Questa della Shoah, dunque, è una storia che non è stata ancora completamente scritta e che, ancora oggi, viene contestata dai cosiddetti storici revisionisti, da coloro che, viziati da un serio pregiudizio ideologico, sostengono che le camere a gas, i forni crematori e quant’altro i nazisti escogitarono per la “soluzione finale”, così era eufemisticamente chiamato il genocidio degli ebrei (e degli altri), sono invenzioni degli americani e dei russi, vincitori della II guerra mondiale.
In effetti, è probabile che in Germania non si sapesse bene quello che si faceva nei lager nazisti: in questi campi di concentramento, come racconta Primo Levi, chimico torinese sopravvissuto allo sterminio che si attuava ad Auschwitz in Polonia, c’è la scritta “Il lavoro rende liberi” e si poteva pensare che gli ebrei deportati lì e in altri famigerati campi lavorassero per il Terzo Reich (come Hitler aveva chiamato il suo regime, terzo regno, che, secondo la sua lucida follia, doveva durare mille anni, vedendo la Germania über alles, cioè sopra tutti).
C’erano, sì, ebrei che lavoravano come schiavi, come gli ebrei nell’antichità furono nella cattività babilonese e in quella egizia, ma sempre nell’ottica di servire il Reich al fine di sterminare i loro correligionari. E se i russi non fossero entrati in armi ad Auschwitz e altrove, anche chi lavorava sarebbe stato fisicamente eliminato, dopo essere stato letteralmente spogliato di tutto: persino i capelli venivano raccolti per “fare coperte ai soldati” – dice una straziante poesia di Joice Lussu – persino i denti d’oro venivano estirpati.
Russi e americani hanno, però, documentato, inoppugnabilmente, senza ombra di dubbio, che le camere a gas, le enormi fosse comuni dove in fretta vennero sepolti gli ebrei scheletriti che non poterono essere bruciati, i forni crematori per l’ eliminazione rapida dei cadaveri, sono esistiti, tutto questo spaventoso armamentario è esistito, in pieno Novecento, non nei secoli bui del Medioevo, e tutto ciò fece sbigottire e inorridire persino coloro che ebbero in simpatia l’ideologia fascista, come, per esempio, l’italiano Giorgio
Perlasca, la cui vicenda umana in favore degli ebrei è stata recentemente rievocata in televisione, dopo una rimozione di tipo psicanalitico nella coscienza degli storici e dei politici italiani, perché Perlasca da giovane fu un fascista che andò volontario a combattere in terra di Spagna a fianco dei franchisti, i seguaci, cioè, del generalissimo Franco, contro quegli spagnoli che volevano importare la rivoluzione comunista.
Tuttavia, Perlasca ebbe orrore di quello che facevano i nazisti nei confronti degli ebrei e si adoperò in Ungheria per liberarne quanti più potè, forse cinquemila, forse più, fino al punto di rischiare la propria vita. Come la vita rischia e, alla fine, perde, il protagonista di Jacob il bugiardo per dare una maggiore speranza di vita, in attesa dell’arrivo dei russi liberatori, e i suoi compagni rinchiusi nel ghetto.
Si tratta d’una amara e bella fiaba, come fiaba, meno amara e triste è il film di Benigni, al quale, nonostante i trionfi riscossi in tutto il mondo, è stato addebitato e, secondo noi, non a torto, di aver banalizzato la shoah. Rischio di banalizzazione, invece, non corre la fiaba di Jacob il bugiardo, girata, non a caso, non con colori splendenti, come quelli del film di Benigni, ma in bianco e nero e con un color seppia che più ci rende partecipi del grigiore drammatico della vita nel ghetto e del tragico epilogo, la morte di Jacob, che può essere vista in funzione salvifica: cioè, Jacob si immola, in un vero olocausto, per salvare gli altri ebrei e la bambina a lui affidata dalla Provvidenza, come nel film La vita è bella la morte del padre favorisce la salvezza del figlio Giosuè.
Differentemente dal film di Benigni, in Jacob il bugiardo, il protagonista, con il suo personale sacrificio, compie un vero e proprio riscatto della propria mediocre esistenza di venditore di frittelle, che scrocca all’amico barbiere la quotidiana rasatura della barba in nome di un antico patto, cui è venuta, tuttavia a mancare la condizione essenziale della reciprocità.
Il film è tutto incentrato su questo singolare personaggio, che vive, come tutti gli altri ebrei, un’esistenza grama e precaria, vedovo della giovane moglie (morta a causa di un bombardamento), che, una sera, si trova fuori dal ghetto per inseguire una pagina di giornale e dai tedeschi viene fatto entrare nella sede del loro comando. All’interno del Kommandantur si trova per pochi istanti da solo e ascolta la radio mentre diffonde notizie sull’avanzata dei russi.
Grazie alla provvidenziale benevolenza di un ufficiale, non viene trattenuto e prima del fatidico scoccare dell’ora di coprifuoco, si trova all’esterno, nei pressi della stazione ferroviaria, da dove deve rientrare nel ghetto. Sta per essere colpito dalle pallottole naziste al momento d’uscire dal suo nascondiglio, quando viene messo sull’avviso da una ragazzina, fatta precedentemente scappare dai genitori, attraverso un foro nel vagone del treno che deportava la sua famiglia e altri in un lager. La bambina si affida a Jacob che, nonostante le sue condizioni di vita, nel ricordo dolcissimo della moglie e per il fatto che non aveva avuto figli, la porta con sé in casa e la nutre come può.
Il film mostra come Jacob ogni mattina si sottoponga a umilissimi lavori di fatica, per conto dei nazisti, pur di raggranellare qualcosa per sopravvivere. La sua vicenda personale assurge a condizione simbolo di tutti gli ebrei privati del loro lavoro, spogliati della loro identità, costretti a coabitare, che vivono nella più cupa disperazione, talvolta pronti a commettere un gesto disperato contro sé stessi o contro gli altri. Jacob, attingendo al proverbiale senso umoristico degli ebrei, riesce a mantenersi in equilibrio e a sperare, anche perché ha sentito alla radio del Kommandantur la notizia dell’avanzata dell’armata sovietica e, secondo i suoi calcoli, la liberazione non dovrebbe essere lontana.
Dà questa notizia a un suo amico che sta per aggredire un soldato nazista, per salvarlo da sicura morte. L’amico desiste dal suo proposito, ma da quel momento segue come un ombra Jacob perché è convinto che Jacob possegga una radio. Da quel momento tutto il ghetto ne viene a conoscenza e Jacob è sùbito al centro dell’attenzione di tutti, guardato con ammirazione e rispetto, perché in quel posto, in quel tempo, possedere una radio equivaleva esporsi a morte sicura.
In un primo momento, Jacob nega decisamente di possedere una radio, afferma di aver detto una bugia, ma non viene creduto; qualcuno gli fa osservare che da quando è stata diffusa la notizia la gente del ghetto sta meglio. Jacob ha come un’illuminazione e, a costo del proprio personale rischio, continua a illudere la sua gente, inventando false notizie (da qui il titolo del film), come se le ascoltasse attraverso la radio (che non ha). Il film si dipana come una commedia, con ritmo sostenuto e con scene quasi umoristiche alternate ad altre di forte tensione drammatica.
La scena più divertente e commovente insieme è quella in cui Jacob-Williams (l’attore è notoriamente bravissimo a cambiare voce e toni) simula di possedere l’apparecchio radio e imita una serie di persone-personaggi pur di far sorridere e portare a una più sollecita guarigione la bambina che sta con lui e che si è ammalata. Il momento più intensamente drammatico è quello in cui i nazisti, venuti a conoscenza (probabilmente da qualche delatore) che nel ghetto c’è una radio, minacciano una forte rappresaglia se non si fa avanti il possessore della radio.
Jacob, pur consapevole di non avere nulla, si presenta e viene quasi massacrato di botte all’interno del Kommandantur per confessare il luogo dove detiene l’apparecchio. Finalmente, Jacob convince l’aguzzino tedesco che la radio da lui ascoltata è quella presente nell’ufficio. Il nazista gli crede, ma vuole salvare la propria onorabilità. Invita Jacob, per avere salva la vita, a dire pubblicamente la verità, cioè che non ha mai avuto la radio e che ha raccontato un sacco di bugie.
Messo di fronte a tutti gli ebrei, che hanno visto in lui uno strumento di speranza, egli non si sente di deludere e disilludere gli amici e viene falciato dai mitra nazisti. Il venditore di frittelle, che prima parlava tanto, non ha parlato. Jacob, tacendo, ha detto l’ultima bugia, ma è diventato un eroe.
Un’iniziativa, che ha influenzato positivamente gli alunni, altamente commendevole, che ha fatto onore alla scuola che l’ha proposta e realizzata.
LO SPIRITO UNITARIO
Commendevoli sono state anche tutte le iniziative volte a far percepire lo spirito unitario agli alunni dei tre indirizzi.