I partiti e il sistema delle “quote rosa” – di Cecilia Càsole

CeciliaIl sistema delle quote è uno strumento volto a garantire una distribuzione equa delle cariche politiche tra donne e uomini ed è espressione della trasformazione tra “uguaglianza di opportunità” a quello di “ eguaglianza di risultati.” Nel primo caso dovevano essere rimossi gli ostacoli che impedivano il raggiungimento di alcune posizioni come il diritto di voto e il diritto di poter candidarsi. L’eguaglianza di risultati esprime un concetto più vasto, che comporta non solo la rimozione di alcuni ostacoli, ma, soprattutto, l’introduzione di misure che garantiscano di fatto la possibilità di canditura e di elezione delle donne, in modo che possano davvero far parte della rappresentanza politica. Coloro che si occupano di promuovere azioni a favore di una maggiore presenza delle donne negli organi elettivi sono movimenti e organizzazioni delle donne che attivano circuiti di supporto nella società civile e tra le organizzazioni internazionali. C’è, tuttavia, chi sostiene che l’introduzione delle quote non produce automaticamente più rappresentanza  perché ci sarebbe comunque la resistenza del mondo politico e la persistenza di stereotipi sociali che considerano ancora la donna come femme du foyer. Infatti, come abbiamo avuto modo di sottolineare, la semplice rimozione dei modelli discriminatorie non appare sufficiente, perché spesso, pur eliminando tutte quelle forme di discriminazioni di discriminazioni palesi continuano a permanere dei pregiudizi a volte avallati dagli stessi soggetti vittime di tali discriminazioni in presa a un delirio di disistima. L’introduzione delle quote rosa è sorta in virtù dell’imposizione istituzionale delle c.d. azioni positive.

Quanto si tratta, per esempio,  di assicurare una percentuale di posti disponibili in egual misura a entrambi i sessi, il sistema delle quote appare adeguato a rispondere a tal esigenze. Tuttavia, affinché il vincolo “ rosa” non assuma la struttura di  concessioni e benefici a favore di un gruppo rispetto a un altro  è necessario che “ le azioni positive che modificano i criteri di ammissione, per esempio a una situazione scolastica, per includere un maggior numero di rappresentanti di gruppi discriminato, sono forse giustificabili strumentalmente ma comunque sempre in via provvisoria “ ( B. Beccalli). Affinché, possa esserci davvero un incremento della partecipazione politica delle donne è necessaria la conquista di determinate posizioni socio-economiche e la trasformazione dei modelli culturali preesistenti. Fattori esogeni di tipo sociale, come quelli degli anni Ottanta, periodo in cui le donne si resero protagoniste di movimenti pro-quote, portando  all’attenzione il dibattito scientifico sulla rappresentanza di genere o come quelli di tipo istituzionale sulla obbligatorietà di quote di genere, accompagnata da sanzioni pecuniarie in caso di mancato rispetto, potrebbero riuscire a “modificare il modello di priorità, quel particolare tipo di imbuto che ogni partito utilizza nel momento in cui esercita la funzione di reclutamento”.[1] Il grafico (2) seguente mostra le percentuali di partecipazione delle donne e degli uomini alla Camera dei deputati in relazione al partito cui appartengono.  Dalla lettura dei dati è evidente l’inferiorità numerica delle donne e conferma ciò che è stato affermato riguardo ai partiti  e al loro legame verso  metodi di reclutamento antichi e decisamente discriminanti per il sesso femminile.

Le donne in magistratura

L’ art. 7 della legge 17 luglio 1919 n. 1176 ammetteva le donne all’ esercizio delle professioni e agli impieghi pubblici, ma le escludeva espressamente dall’ esercizio della giurisdizione. L’ art. 8 dell’ ordinamento giudiziario del 1941 stabiliva requisiti per accedere alle funzioni giudiziarie: “Essere cittadino italiano, di razza ariana, di sesso maschile e iscritto al P.N.F.”. Dopo la stesura della Carta costituzionale venne sancito il diritto di uguaglianza dei cittadini nell’art. 51: “ Tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici in condizioni di uguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge”, lasciando quindi al legislatore ordinario di prevedere il genere maschile tra i requisiti per l’accesso derogando implicitamente al principio di uguaglianza. Solo nel 1956 con la legge n. 1441 fu concesso alle donne di fare parte dei collegi della Corte di Assise , a condizione che almeno tre dei giudici fossero di sesso maschile. Nulla di incostituzionale secondo la Corte che, anzi,  con sentenza n. 56 del 1958,  affermò che  “la ratio della legge si configurasse nelle naturali differenti attitudini proprie degli appartenenti a ciascun sesso …” Solo dopo otto anni c on decreto ministeriale del 3 maggio 1963 legge n. 66 si regolamentò “l’ammissione della donna ai pubblici uffici e alle professioni, compresa la magistratura”. Già nel 1960 la Corte era intervenuta con la sentenza n.3 dichiarando “parzialmente illegittimo il richiamato art. 7 della legge n. 1176 del 1919, nella parte in cui escludeva le donne da tutti gli uffici pubblici che implicavano l’ esercizio di diritti e di potestà politiche.  Fu bandito il primo concorso aperto alla partecipazione delle donne: otto di loro risultarono vincitrici e con d. m.  del 5 aprile del 1965 entrarono nel ruolo della magistratura. Dal 1965  le cose  sono molto cambiate, le donne in magistratura sono circa il 48%, un numero enorme rispetto allo 0,14 %  del 1963. Ciò lo si deve soprattutto all ’A.D.M.I.- Associazione Donne Magistrato,  cui fece seguito l’ attuazione della legge 10 aprile 1991 n. 125, dapprima col Comitato per le pari opportunità (C.P.O.) presso il CSM, poi, in sequenza, della Commissione Pari Opportunità dell’A.N.M. e, più di recente, dei Comitati Pari Opportunità nei distretti delle Corti di appello e presso la Corte di Cassazione. I C.P.O. hanno cominciato a lavorare in sinergia con i Consigli Giudiziari, per la concreta applicazione delle pari opportunità nei singoli distretti. Un quadro, dunque, abbastanza positivo se non si tenessero in considerazione le posizioni apicali in magistratura dove le donne risultano ancora sottorappresentate. L’avvenuta abolizione dell’anzianità non temperata da una specifica individuazione di “criteri” per contenere l’attuale ampia discrezionalità nelle scelte apicali ha incrementato la scarsa rappresentazione delle donne, le quali, raggiunta un’ adeguata anzianità, rischiano di essere discriminate a causa della iper-valorizzazione di candidati uomini, anche più giovani, che, però,  hanno avuto il tempo e l’energia di partecipare assiduamente alle attività formative e per costruire la carriera corredandola delle pubblicazioni. Per il riconoscimento degli incarichi direttivi, le donne si trovano penalizzate, perché, anche avendo oramai raggiunto l’anzianità sufficiente a concorrervi, difficilmente li ottengono perché non hanno avuto modo di “costruire” la loro carriera, di aggiungere, quindi, all’esercizio giurisdizionale  anche il lavoro didattico o quello associativo o di scrivere libri o note a sentenza o ancora di partecipare a dibattiti e convegni essendo quasi tutte gravate, oltre  che dal quotidiano impegnativo lavoro giudiziario, anche da carichi extra-lavorativi in famiglia. Le magistrate, con grande professionalità svolgono la loro funzione, curano diligentemente i propri compiti,  purtroppo, per le ragioni suesposte, vengono escluse sempre più spesso dagli incarichi apicali o dalla Cassazione, come dimostrano le statistiche e i dati.  In Corte di Cassazione sono, infatti, meno di un sesto dei trecento magistrati e solo cinque sono presidenti di Sezione e al C.S.M, attualmente sono soltanto due le donne con il grado di consigliere. Al fine di garantire pari opportunità, lo Statuto dell’ANM,  prevede già un sistema di quote di genere, disponendo che le liste delle correnti debbano presentare “almeno il 40% di donne” per le elezioni dell’Associazione (che riunisce il 93% dei magistrati italiani) e , nel caso in cui due candidati ricevano lo stesso numero di voti, prevarrà non quello più anziano ma quello appartenente al «genere meno rappresentato». Anche nella magistratura le “quote di genere” sembrano essere strumento necessario almeno per tutto il periodo in cui perdura la situazione di disparità nelle posizioni apicali.[2] Nell’ambito europeo la posizione delle donne non sembra molto diversa. Vi è ancora il c.d. “ soffitto di cristallo” che impedisce alla donne l’avanzamento di carriera gerarchica o quanto meno lo ostacola. La Commissione Europea ha provveduto alla redazione del rapporto che ci fornisce i dati sulla percentuale delle presenze femminili e maschili in ambito economico, politico, nella pubblica amministrazione e nella magistratura. La tabella riportata (grafico 3) mostra le percentuali di presidenti e membri nelle corti europee di entrambi i sessi. Dal totale rilevato appare con molta chiarezza ciò che è stato detto a proposito della difficoltà per le donne di raggiungere incarichi di vertice.

 Le Direttive nazionali in materia di pari opportunità

Le statistiche sull’occupazione nel settore dei comitati esecutivi, imprese, istituzioni e consigli di amministrazione hanno dimostrato che i lavoratori sono quasi tutti uomini rientranti nella fascia di età dai 50 ai 65 anni, soprattutto nelle posizioni di vertice. Il reclutamento e le progressioni di carriera femminili seguono i criteri del genere dominante e sono basati su quella cultura e quel linguaggio, tant’ è vero che,  difficilmente. troveremo donne negli uffici dirigenziali, se escludiamo il mondo della scuola, nel quale, ormai, le donne “dirigenti scolastici”  sono in maggioranza. Spesso l‘ingresso delle donne nel mondo del lavoro è stato anche il risultato di una loro “mascolinizzazione”, al contrario nulla è cambiato nei modelli di carriera e negli stili di leadership maschili che, anzi, le donne sono spesso chiamate a copiare.  Al fine di promuovere l’accesso al lavoro delle donne, con D.P.D.R. n. 405 del 28 ottobre 1997[3] è stata promosso l’Ufficio del Ministro per le pari opportunità, istituito nel 1996, presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri. La normativa disciplinante l’azione del Ministero per le pari opportunità è stata più volte soggetta a modifiche. Attualmente  i compiti del Ministero riguardano:  “ il coordinamento delle iniziative normative e amministrative in tutte le materie attinenti alla progettazione e alla attuazione delle politiche di pari opportunità”[4];  la gestione dei rapporti con le amministrazioni statali, regionali, locali; la verifica del corretto espletamento degli incarichi delle amministrazioni statali, regionali, secondo le rispettive competenze; nonché la cura dei rapporti con gli organismi e gli enti non governativi operanti in materia di parità e pari opportunità sia nel territorio nazionale sia all’estero, in primis con l’Unione Europea. Per ragioni di sintesi riporteremo le iniziative più recenti del Ministero per le pari opportunità, con l’obiettivo di individuare in quali modalità è possibile pensare e realizzare politiche pubbliche in grado di agevolare l’accesso al lavoro, tutelare contro fenomeni discriminatori, incentivare l’assunzione delle donne, e assicurare un ambiente lavorativo sereno. Com’è espressamente indicato dalla direttiva  23 maggio 2007- Presidenza del Consiglio dei Ministri – “Le pari opportunità sono principio fondamentale e ineludibile nella gestione delle risorse umane nelle pubbliche amministrazioni. Tale principio è espressamente enunciato nell’ art. 7, comma 1, del d.lgs n.165 del 2001 in cui si prevede che “le amministrazioni pubbliche garantiscono parità e pari opportunità tra uomini e donne per l’accesso al lavoro e il trattamento sul lavoro”. La direttiva  mira a sottolineare il fatto che le differenze di genere non rappresentano un elemento di ostacolo al funzionamento delle amministrazioni pubbliche ma, anzi, innalzano il livello della qualità dei servizi nei confronti dei cittadini e assicurano, dunque, una maggiore efficacia ed efficienza della singola amministrazione.  Per tale ragione è necessario non solo garantire la parità di trattamento a donne e uomini senza nessuna discriminazione fondata sul sesso, ma occorre rendere accessibile alle donne la conquista di posizioni apicali. Gli interventi previsti per il raggiungimento degli obiettivi fissati dalla direttiva si basano, innanzi tutto, su attività di analisi e autovalutazione, per  riconoscere tramite processi di monitoraggio, eventuali discriminazioni dirette e indirette, in conformità a quanto disposto dagli articoli 25 e 26 del d.lgs. 11 aprile 2006 n. 198 “Azioni positive nelle pubbliche amministrazioni”  secondo cui “ le amministrazioni sono tenute a garantire e a esigere l’osservanza delle norme, che in attuazione dei ben noti principi costituzionali, vietano qualsiasi forma di discriminazione diretta o indiretta in riferimento a ogni fase ed aspetto della vita lavorativa”.[5]

I partiti e il sistema delle “quote rosa” – di Cecilia Càsoleultima modifica: 2015-02-19T07:00:12+01:00da leodar1
Reposta per primo quest’articolo