Ecco come tagliare il debito senza far soffrire nessuno

foto crisi.jpgUscire dalla crisi? La soluzione ci sarebbe: tagliare gli sprechi, quelli veri. Non certo la spesa sociale, che i tecno-devastatori stanno minando dalle fondamenta col risultato di far crollare la sicurezza quotidiana degli italiani, impoverendo il paese. Gli sprechi da tagliare – vere fabbriche di debito – sono le grandi opere inutili, l’immensa dispersione di energia e la peste chimica dell’agricoltura industriale, quella della grande distribuzione che oggi ci alimenta. Maurizio Pallante, fondatore del Movimento per la Decrescita Felice, ha le idee chiare: si può creare nuova occupazione senza fare nuovo debito, ma addirittura tagliandolo. Lo dimostra uno studio pubblicato dal “Sole 24 Ore” il 13 febbraio: per ogni 10 miliardi di euro investiti nella riduzione degli sprechi si possono ricavare 130.000 posti di lavoro di buona qualità, mentre investendo la stessa cifra in grandi opere si darebbe lavoro al massimo a 7.300 persone. La logica della crescita del Pil, inutilmente inseguita dal governo Monti, verrebbe letteralmente stracciata da una decrescita selettiva: la riduzione del Pil (indicatore convenzionale della crescita) non produrrebbe affatto recessione, ma benessere per tutti. «Quella che stiamo vivendo – afferma Pallante –è una crisi contemporaneamente economica, occupazionale, energetica e ambientale. Un coro unanime ripete che per superare questa crisi occorre rilanciare la crescita, peraltro senza riuscirci. Noi riteniamo che la crescita sia la causa della crisi che stiamo vivendo e quindi non può essere la soluzione». Una crescita continua dell’offerta competitiva di merci ha bisogno di tecnologie che riducono i posti di lavoro.

 

Risultato: crolla la domanda di quelle stesse merci. Fino a ieri, la domanda è stata sempre largamente sostenuta dal debito, che oggi ha raggiunto il 120% del Pil. Non si scappa: se di lavora per ridurre il debito, si riduce la domanda di merci e quindi si aggrava la crisi. Se invece si vuole rilanciare l’economia tradizionale bisogna aumentare la domanda e quindi produrre altro debito. Gli economisti mainstream, aggiunge Pallante, non tengono conto di un fattore ormai decisivo: i cicli produttivi impattano con le risorse ambientali, con il mondo in cui viviamo, in tre diversi momenti. Prima, quando prelevano le risorse. Poi nel momento in cui le trasformano in merci, utilizzando tecnologie che rilasciano negli ambienti sostanze inquinanti. E infine quando le merci prodotte giungono al termine della loro vita e diventano rifiuti, che vengono scaricati nell’ambiente con costi altissimi. Cambiare paradigma? E’ possibile: basta trovare più denaro per fare investimenti per attività utili. Attenzione: «Non ci interessa creare occupazione purchessia: ci interessa creare occupazione utile», e quindi «serve trovare denaro per fare investimenti in attività utili senza accrescere il debito». Come? «In un modo soltanto: attraverso la riduzione degli sprechi», che non sono certo gli ospedali o le pensioni. E’ sufficiente aprire il capitolo più scandaloso, quello energetico: «In Italia noi sprechiamo il 70% dell’energia che utilizziamo». Un sistema che spreca il 70% dell’energia che produce o acquista a caro prezzo, aggiunge Pallante, è come un secchio bucato: sei costretto ad aggiungere acqua che andrà perduta. «Di fronte a questa situazione, in genere gli ambientalisti hanno detto che bisogna sostituire le fonti fossili con le rinnovabili». Sbagliato: «La priorità non è questa: prima bisogna ridurre il buco nel secchio, cioè gli sprechi di energia». Soltanto se si saranno ridotti questi – primo passaggio, logico e metodologico – si potranno sviluppare in maniera significativa le fonti rinnovabili. Solare, eolico, geotermico: le rinnovabili non sono in grado di soddisfare gli stessi sprechi alimentati dalle fonti fossili. Per cui, se non vogliamo che l’energia verde resti una percentuale limitata, «prima bisogna ridurre il fabbisogno riducendo gli sprechi», e poi soddisfare il fabbisogno residuo, cioè quello reale, con le fonti rinnovabili. L’operazione è ultra-conveniente: non fa crescere il debito, alla lunga si ripaga da sola, e intanto produce occupazione pulita, utile per il sistema-paese: 130.000 posti di lavoro ogni 10 miliardi, contro gli appena 7.300 delle grandi opere. Basta considerare il settore edilizio: è immenso il lavoro che richiede la ristrutturazione energetica degli edifici. Al meeting di Cl a Rimini il viceministro Mario Ciaccia ha detto che bisogna esentare dall’Iva le grandi opere? Ovvio: il loro obiettivo, «irraggiungibile, oltre che non desiderabile», è quello di rilanciare l’economia «attraverso le grandi opere che non servono, nell’illusione di creare posti di lavoro» che in realtà sono briciole, «rispetto a quelli si possono creare in attività che riducono l’impatto ambientale, lo spreco di risorse e che si pagano da sé con i risparmi che consentono di ottenere». Il problema è nel manico, nella politica: «Noi oggi siamo governati da una alleanza tra i partiti, ottocenteschi e novecenteschi, e le grandi aziende multinazionali nell’ottica della globalizzazione», dice Pallante. Perché le grandi opere? Semplice: «Perché le possono realizzare solo le grandi aziende, e vengono commissionate dai politici attuali». Risposta politica: «Occorre iniziare a costruire una alleanza sociale diversa rispetto a questa, una alleanza strategica con le piccole e medie industrie», contro l’alleanza storica tra multinazionali e vecchi partiti. «Su questo settore si può trovare anche una alleanza con il sindacato, perché è l’unica maniera che noi oggi abbiamo di cambiare grandi numeri di occupazione, ma soprattutto di iniziare a installare anche nella testa del sindacato l’idea che non basta creare occupazione qualsiasi, ma che serve creare una occupazione utile». Un salto di qualità: primo, autosufficienza energetica. E al tempo stesso: sovranità alimentare. L’agricoltura chimica, quella che distribuisce prodotti di massa al supermercato, è assolutamente dannosa: inquina e impoverisce i suoli. E inoltre «costa un sacco di soldi, perché tutta la chimica dell’agricoltura richiede grandi consumi di energia». E l’aumento del prezzo delle fonti fossili, spiega Pallante, comporterà un aumento progressivo dei generi alimentari: «Non soltanto per il trasporto a distanza, come qualche giornale dice, ma proprio per le tecnologie di produzione». Convenienza ecologica e tutela della salute, ma anche convenienza economica: ecco le armi vincenti che spiegano il successo crescente dell’agricoltura biologica. Molti giovani, anche laureati, iniziano a tornare a lavorare in campagna, archiviando la logica della grande distribuzione organizzata. E’ l’ economia del futuro, il territorio: piccole e medie aziende, agricole e artigianali, che scoprono nuove forme alternative di commercializzazione dei loro prodotti: i gruppi d’acquisto solidale per smerciare i prodotti stagionali, quelli della filiera corta. Vivere meglio costa meno, è dimostrato: ma bisogna organizzarsi. «Sul territorio – dice ancora Pallante –occorre incentivare queste forme di economia sana, che non inquina, non gonfia il debito e crea occupazione pulita. Non vogliamo che il Pil diminuisca semplicemente perché si mette il segno meno al posto del segno più: è la qualità a dimostrare che la decrescita del Pil produce il benessere che ci serve, scacciando una crisi prodotta proprio da una crescita cieca e malsana, che oggi si è arenata di fronte all’overdose della sua droga storica: il debito».

P. M.