LA DONNA, VITTIMA E CARNEFICE DELLO SVILUPPO INDUSTRIALE

Neoanacronismi d’autore a fimminina

 

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Il mito della donna resistente resiste da più di sessant’anni, in Italia, collegandosi al più vasto fenomeno della Resistenza partigiana. Negli anni Settanta il mito ha avuto un notevole rinforzo ancorandosi a movimenti oltranzisti di protesta emancipativa femminile, ancora una volta connettibili ai movimenti di più ampia diffusione politica, spesso devianti – o anche deviati ad arte – verso forme di protesta eversiva, finanche terroristica.  Fra queste due svolte epocali, in cui come detto la situazione-donna si innestava in canali di più ampia manifestazione di disagio sociale e speranza di liberazione di tipologia più meramente intersessista – anzi, per certi aspetti, cavalcandone gli sviluppi storici – e diffusamente “umana”, gli anni Cinquanta e Sessanta, prima, gli anni Ottanta, Novanta e i primi scampoli del Duemila, poi, ne hanno in qualche modo attenuato solo apparentemente la forza. Probabilmente, invece, sono stati proprio questi anni di apparente o forse provato disimpegno che hanno fortificato l’istanza femminile a un movimento che prescindesse da una protesta strutturata generalmente come una sorta di dogmaticità, convertendola a più linee comportamentali e concettuali manifestanti un proposito liberatorio a tutto campo e non solo politico.

Per certi aspetti sembra che gli anni dell’immediato dopoguerra abbiano visto funzionalizzarsi un essere umano, specie nella dimensione italiana e più in generale di quei paesi usciti con le ossa rotte dal conflitto mondiale, in particolare un essere donna che sapesse attivamente contribuire alla ricostruzione sociale e politica dei paesi in questione, attingendo fondamentalmente alla propria femminilità a tutto campo. Ferma restando una notevole dose di tragica autoironia – il cui modello è ben ravvisabile nell’Anna Magnani di “Roma città aperta” ma anche, per rimanere nella dimensione cinematografica neorealistica e postneorealistica italiana, nelle donne, anzi nelle “femmine”, di Fellini o Lattuada o nella Mangano di “Riso amaro” di Giuseppe De Santis, come nelle prime versioni della donna concettuale emergente dalle pellicole esordienti di Michelangelo Antonioni, in particolare nei ritratti di Monica Vitti e Lucia Bosé, con l’Alida Valli strepitosa interprete del viscontiano “Senso” a fare da tragicomico trait d’union -, che fosse tragica, tragicomica, o già comicamente anticipatrice dello straripante riproporsi comico della stessa Vitti dei primi anni Settanta e della Melato degli stessi anni, la donna riusciva a perdere in quegli anni lo stereotipo della sensualità fine a sé stessa, cui l’aveva sottoposta la commedia classica prebellica, per riproporre una sensualità più complessa, matura, ironica e non iconica.  Compresi i paralleli tentativi di reimposizione degli stilemi classici, ormai volgarizzati, che riconducevano il ruolo della donna a quello della “femmina”, ma senza il senso di straniamento di cui s’è tentato di dire finora, del cinema e di tutta una sottocultura di genere dei medesimi anni della lotta femminista.  Questi tentativi di subordinazione sembravano non essere altro che la conferma, come per contraltare, di quanto appunto affermato. Sono proprio questi gli anni in cui la donna, come dimostra il manifesto dell’evento “a’ fimminina”, svoltosi a Lentini (“Villa Gorgia”), l’8 settembre 2010 grazie all’ideazione e all’ottimo sviluppo di un progetto dell’Associazione “Talè”, afferma la propria avvenuta femminilizzazione, cavalcando l’onda liberatoria del cosiddetto “boom” economico e riuscendo a essere a un tempo vittima e carnefice dello sviluppo industriale.  La donna e l’uomo, maturando nuovi gusti estetici e latamente etici, rimanevano comunque confinati dentro i rispettivi ruoli, ma ne venivano nello stesso tempo allontanati per mescolarsi in un comune senso di sessualità miscelata. La donna e l’uomo cominciavano a invertire i propri ruoli, pur rimanendo ancorati rigidamente a convenzioni preindustrializzate. La donna va, sì, sulla vespa, ma non la cavalca come l’uomo, bensì  a fimminina, molto simile all’andare a dorso di mulo della donna prebellica e prenovecentesca.  La donna e l’uomo svolgevano le stesse funzioni, seppure in maniera esteticamente, e, di conseguenza, latamente etica, differente. Per gli anni successivi alla deriva femminista degli anni Settanta, confinante con i cosiddetti “anni di piombo”, i ruoli divergenti del femminile e del maschile tendevano a ricomporsi senza però, spesso, riconoscersi reciprocamente. L’evento in programma ha teso a dissimulare la carica eversiva dei movimenti postfemministi più oltranzisti, ormai decisamente demodé, per riaffermare un ironico essere donna come essere umano a tutto tondo e prescindente da forzate e anacronistiche differenziazioni.  La donna è differente dall’uomo, ma soprattutto ogni donna è differente dall’altra e dalla sé stessa di un attimo prima. Una certa ironia sta dietro a questa modalità d’uso dell’essere donna, che poi è un essere femmina, anzi per dirla in modo nostrano “fimmina”.

Quello che si cela dietro gli interventi, parlati, musicati, recitati e visivamente rappresentati, è un non-ruolo femminile, in quanto eversivo o sottomesso, e in questo non avere il ruolo la donna, le singole donne, varie e varianti la propria oggettiva e libera partecipazione a ogni tipo di sviluppo e, perché no, anche a volte di regresso, sia anche soggettivamente implicata a essere partecipe di un proprio destino neoumanistico, riscoprendo in ciò anche il proprio onore di essere “cacciatrice d’uomini”, nel duplice senso di dare la caccia e cacciare dai ruoli noiosamente stereotipati l’altera pars dell’umanità.

   Francesco D’ Isa