RACCONTI DI SICILIA: LA STORIA DI DON CALOGERO SCHILLACI detto SPINGARDA – di Francesco Migneco

imagesAF9BZP54Appena cinquantino, quando le forze e il tempo me lo permettevano, mi piaceva girovagare per la bella terra di Sicilia, tanto conosciuta quanto sconosciuta. Scopo principale: la ricerca di siti antichi, come manieri, case gentilizie, masserie tipiche dell’Isola. Mi venne raccontato di un antico maniero o complesso gentilizio, situato in un grosso borgo adagiato sul declivio di una collina alle falde delle Madonie. Curiosità, ansia di conoscere mi accompagnarono durante i miei precedenti l’estate in cui intrapresi il viaggio. A calura inoltrata e dopo un percorso non molto comodo, raggiunsi la zona segnalata. All’inizio dell’abitato, un malandato cartello indicava “Borgo di Filesi Siculo”. Malgrado fossimo già  nell’epoca del frigorifero e della tv a te canali, in quel lembo di Sicilia tutto sembrava essersi fermato al passato. Quelle centinaia di anime, che popolavano il borgo, mantenevano le loro antiche usanze ancestrali. Non fu facile l’approccio con la gente, diffidente di quel forestiero che faceva tante domande su quel maniero che si vedeva in lontananza svettare sulla collina svettare sopra le basse case del borgo, sparse a corona tutt’intorno. Mi soccorse, in quella diffusa diffidenza, un contadino affabile e premuroso che non solo mi fornì le notizie su ciò che cercavo, ma anche si offrì d’accompagnarmi sul luogo con il suo carretto, cui era attaccato un mulo ben nutrito. Mi lasciò all’inizio d’una trazzera che si snodava  per la collina sino a raggiungere un’imponente massa scura che doveva essere il maniero. Dovetti affrontare un percorso accidentato, respirando, però, quel piacevole aspro odore di contadino che sprizzava da quel carrettiere. Il tagliente acciottolato, le sterpaglie e i rovi  del sentiero ritardavano il cammino. Tuttavia, pervenni in un ampio spazio coperto di basole di granito grigio, alcune sconnesse, con l’erba alta spuntata tra le fughe. Si stagliava di fronte un massiccio fabbricato, il cui la parte a est completamente rovinata, lasciava trasparire i resti di due grandi archi e i resti di un grosso muro di pietra coperto di sterpaglie. Invece, la parte a ovest si presentava in buono stato di restauro. Si ergeva in mezzo a un paesaggio dal cielo pulito, sotto un sole caldo e una brezza ponentina, che portava l’odore di erba fresca appena falciata, misto a zaffate del profumo dei  fiori. Un grande portone di legno massiccio, di non recente fattura, segnava l’ingresso. Battei per quattro volte il pesante battaglio quando, dopo un po’, venne ad aprirmi un uomo, quasi sessantino, dal profilo legnoso, magro  come un attaccapanni, compassato e tranquillo. Indossava pantaloni scuri, con addosso una giacca a collo montato, dal colore indefinito, che, sicuramente, a suo tempo, doveva essere stata una ricca livrea di maggiordomo, di cui, ora, restavano una fila di bottoni abbruniti sul davanti, e due pallidi alamari come spalline.

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