STORIA E CULTURA/ L’INFLUENZA DEGLI ARABI IN SICILIA

Un avvincente excursus dello storico augustano Ugo Passanisi

UGOLa popolazione siracusana assediata riusci a resistere nutrendosi di erbe selvatiche, di radici e di ossa triturate. La disperazione e la fame portarono anche a numerosi casi di cannibalismo. Infine i musulmani ebbero ragione della resistenza greca ed irruppero nella città. L’eccidio che ne seguì fu terribile e degno della fama che i Saraceni si erano guadagnata da secoli: le mura furono abbattute, le case, le chiese, i monasteri dati alle fiamme, migliaia di cittadini, scampati al massacro, furono spediti in Africa come schiavi. Le chiese sopravvissute alla distruzione furono trasformate in moschee e molti siracusani, per aver salva la vita, si convertirono all’Islam. Gli arabi, infine, completarono la conquista dell’Isola quando riuscirono ad impadronirsi di Catania, di Taormina e di Rometta, nel messinese, ultima roccaforte bizantina, nel 965. Dunque, per chiudere la partita con Costantinopoli c’erano voluti ben 138 anni di lotte violente e sanguinose. Ma, se lunga e faticosa era stata la conquista, molto più lunga fu la dominazione araba della Sicilia: dall’anno 827, data dello sbarco a Mazara, al 1091 quando, come vedremo, con la conquista di Noto da parte dei Normanni di Roberto il Guiscardo e di Ruggero d’Altavilla, la Sicilia dopo ben 264 anni di dominio musulmano rientrò definitivamente nell’orbita dell’Occidente cristianizzato. Con la conquista da parte degli Arabi si forma in Sicilia un Emirato, dipendente solo in modo formale dal califfato di Baghdad ma praticamente indipendente. I Musulmani , dopo  le depredazioni e le spoliazioni dei Romani, dopo l’estremo abbandono dei Bizantini e le devastazioni ed i massacri prodotti dal lungo conflitto, trovano una terra povera, desertificata, anche se ricca di risorse. Ma con i Saraceni comincia per la Sicilia una sorta di Rinascimento. L’Isola viene divisa dagli arabi in tre grandi distretti amministrativi: il Val di Mazara che comprendeva la parte centro-occidentale; il Val Demone, nella parte settentrionale ed il Val di Noto per la parte meridionale.

La lunga e dura guerra di conquista aveva provocato la decimazione nella popolazione siciliana poiché gli arabi non facevano prigionieri, e mentre le città che si arrendevano senza combattere venivano poste sotto la loro protezione, quelle che invece resistevano all’avanzata araba una volta conquistate venivano devastate e distrutte, gli uomini uccisi, le donne ed i bambini venduti come schiavi sui mercati nordafricani. Ma dopo la conquista gli ampi vuoti nella popolazione locale vennero presto colmati dai nuovi immigrati provenienti dal NordAfrica. Si stabilirono definitivamente in Sicilia molti dei soldati che l’avevano conquistata e arrivarono anche alcune centinaia di migliaia di arabi e berberi in cerca di fortuna. La disponibilità di terra era ampia e gli arabi ne divenivano proprietari per diritto di conquista nei confronti degli antichi padroni. La Sicilia, all’epoca, era ricoperta da immense foreste che si alternavano ai campi coltivati a grano. Gli arabi iniziarono a tagliare gli alberi per venderne il legname sui mercati del NordAfrica, notoriamente povero di vegetazione ad alto fusto. I nuovi immigrati davano fuoco alle foreste per ricavare altra terra da coltivare, e poiché molti degli immigrati erano pastori di capre essi trasformarono parte del territorio a pascolo impedendo la crescita di nuova vegetazione. Il vecchio ecosistema siciliano, fatto di boschi e di campi di grano, ne venne completamente sconvolto. Una vera rivoluzione, dunque: abbandonata la monocoltura del grano che per più di 1500 anni aveva impoverito il suolo, gli arabi, servendosi largamente della manodopera a basso costo costituita dai contadini locali, fanno rifiorire l’agricoltura grazie alle nuove tecniche agricole da loro introdotte, ai nuovi sistemi di irrigazione, alla ricerca ed al razionale sfruttamento e convogliamento delle acque, ed all’introduzione di nuove colture fino a quel momento del tutto sconosciute in Sicilia: il riso, l’ulivo e la vite, il limone e l’arancio, il pesco, l’albicocco, gli asparagi, il pistacchio ed il cotone, la canna da zucchero, la palma da datteri, il grano duro, il carrubo, il melo cotogno e il melograno, il gelso e gli ortaggi: melanzane, spinaci, cetrioli, zucche e zucchine, meloni, angurie e il ficodindia; introducono il gelsomino, che chiamano “jasmin”, che fornisce una pregiata essenza per la produzione di profumi. Rifiorisce la pesca, specialmente quella del tonno grazie all’ingegnosa tecnica delle tonnare da loro introdotta e, fino a pochi anni fa, ancora viva su tutte le coste dell’Isola. Rifiorisce il commercio, e la Sicilia diviene il principale fornitore del Nord-Africa soprattutto di prodotti agricoli e di legname poiché i cantieri navali degli arabi avevano bisogno di molto legname per la costruzione delle navi con le quali dominavano il Mediterraneo ed effettuavano le aggressioni e le razzìe alle coste e ai paesi della Penisola italiana in sèguito alle quali i cristiani catturati venivano venduti sui mercati nordafricani. Il commercio degli schiavi divenne in tal modo una delle principali risorse economiche della Sicilia. Rifiorisce l’artigianato per la straordinaria capacità dei musulmani di rendere prezioso il più semplice oggetto decorandolo con disegni floreali o geometrici detti, appunto, “arabeschi”. Questi oggetti, dai pannelli in legno intagliato, ai vasi di ceramica e di metallo accuratamente decorati, ai piatti ed al vasellame in rame ed ottone preziosamente lavorati col bulino e col martello si possono trovare ancora oggi nella vivace Via dei Calderai a Palermo in cui sono esposti fuori dalle piccole botteghe Una vera rivoluzione, dunque: abbandonata la monocoltura del grano che per più di 1500 anni aveva impoverito il suolo, gli arabi, servendosi largamente della manodopera a basso costo costituita dai contadini locali, fanno rifiorire l’agricoltura grazie alle nuove tecniche agricole da loro introdotte, ai nuovi sistemi di irrigazione, alla ricerca ed al razionale sfruttamento e convogliamento delle acque, ed all’introduzione di nuove colture fino a quel momento del tutto sconosciute in Sicilia: il riso, l’ulivo e la vite, il limone e l’arancio, il pesco, l’albicocco, gli asparagi, il pistacchio ed il cotone, la canna da zucchero, la palma da datteri, il grano duro, il carrubo, il melo cotogno e il melograno, il gelso e gli ortaggi: melanzane, spinaci, cetrioli, zucche e zucchine, meloni, angurie e il ficodindia; introducono il gelsomino, che chiamano “jasmin”, che fornisce una pregiata essenza per la produzione di profumi. Rifiorisce la pesca, specialmente quella del tonno grazie all’ingegnosa tecnica delle tonnare da loro introdotta e, fino a pochi anni fa, ancora viva su tutte le coste dell’Isola. Rifiorisce il commercio, e la Sicilia diviene il principale fornitore del Nord-Africa soprattutto di prodotti agricoli e di legname poiché i cantieri navali degli arabi avevano bisogno di molto legname per la costruzione delle navi con le quali dominavano il Mediterraneo ed effettuavano le aggressioni e le razzìe alle coste ed ai paesi della Penisola italiana in seguito alle quali i cristiani catturati venivano venduti sui mercati nordafricani. Il commercio degli schiavi divenne in tal modo una delle principali risorse economiche della Sicilia. Rifiorisce l’artigianato per la straordinaria capacità dei musulmani di rendere prezioso il più semplice oggetto decorandolo con disegni floreali o geometrici detti, appunto, “arabeschi”. Questi oggetti, dai pannelli in legno intagliato, ai vasi di ceramica e di metallo accuratamente decorati, ai piatti ed al vasellame in rame ed ottone preziosamente lavorati col bulino e col martello si possono trovare ancora oggi nella vivace Via dei Calderai a Palermo in cui sono esposti fuori dalle piccole botteghe insieme ad una vastissima gamma di prodotti ed utensili di fattura artigianale. Rifioriscono l’architettura e l’edilizia urbana e contadina. E si moltiplicano i matrimoni misti. Anche se la cultura araba ha esercitato la sua maggiore influenza nell’Isola soprattutto in quella parte più occidentale che ha i vertici a Mazara ed a Palermo, l’impronta della civiltà araba è durata in tutta la Sicilia per un millennio e più, incidendo profondamente nella cultura, nel carattere della gente, nelle fisionomie, nei costumi, nei toponimi, nella lingua, nell’architettura, nella letteratura. Ma il miracolo più grande che si verifica durante la dominazione musulmana è lo spirito di tolleranza, la convivenza pacifica tra popoli di cultura, razza, e religioni diverse. Dopo i massacri della guerra di conquista il comportamento degli Arabi nei confronti della popolazione locale fu ineccepibile, improntato alla massima tolleranza ed al rispetto. Se è vero che la popolazione di fede greco-ortodossa specialmente nella parte occidentale dell’Isola fu intensamente islamizzata, tuttavia gli arabi non perseguitarono i cristiani rimasti che furono tollerati e protetti, e consentirono che potessero continuare a professare la loro fede, purché non in pubblico, soprattutto non in presenza di musulmani, accontentandosi di proibire la costruzione di nuove chiese e di far pagare ai cristiani che avevano rifiutato di convertirsi all’Islam una tassa, la cosiddetta “gézia”, consentendo loro in pratica la massima libertà di culto. A titolo di esempio di questo spirito liberale citiamo il diploma di un loro Emiro nel quale era detto: “Nel nome di Dio clemente e misericordioso. Questa è la sicurtà concessa dal servo di Dio, Omar, Principe dei Credenti. A tutti senza distinzioni, o malati o sani, egli garantisce la sicurtà per loro stessi, per i loro beni, per le loro chiese, per i loro crocefissi, e per tutto ciò che riguarda il loro culto …. non saranno maltrattati per causa della loro fede, né alcuno fra essi sarà danneggiato.” Anche le comunità ebraiche siciliane, in particolar modo quella di Palermo, beneficiarono di questo spirito di tolleranza e aumentarono di numero per l’arrivo di ebrei schiavi e riscattati dai loro correligionari. Gli ebrei, che durante il periodo musulmano furono in gran parte artigiani e commercianti, condussero un lucroso commercio tra la Sicilia, il Maghreb e l’Egitto raggiungendo un tale livello di ricchezza e di benessere da consentire loro perfino di donare denaro alla Palestina. Anch’essi, comunque, come i cristiani, pagavano le “gézia” ed un’imposta sugli immobili posseduti. Una delle prime mosse politiche dei nuovi padroni fu il trasferimento della Capitale dell’Isola da Siracusa a Palermo che allora si chiamava Panormus, il cui nome gli arabi storpiarono chiamandola Balaarm, da cui successivamente derivò il nome attuale. Perciò, durante la dominazione araba Siracusa, così come tutta la Sicilia orientale, divenne una città di importanza minore cedendo definitivamente il posto di capitale dell’isola a Palermo, pur continuando a mantenere il titolo di capitale del Val di Noto, e non riacquistò mai più la sua antica grandezza. Nel giro di qualche anno la nuova Capitale si distinse per lusso e per ricchezza con tutte le caratteristiche di una grande città orientale. Gli arabi costruirono moschee, bagni pubblici e privati, il porto, l’arsenale, le mura e le porte, i mulini, i mercati, belle fontane e splendidi giardini. Nella parte più elevata della città i Musulmani edificarono il palazzo dell’Emiro che in seguito, ristrutturato ed ampliato, si chiamerà Palazzo dei Normanni e che attualmente è la sede del Parlamento Regionale Siciliano. E poi la loro più grande Moschea nello stesso luogo dove in seguito i Normanni, servendosi di maestranze arabe, edificheranno l’attuale Cattedrale. E ancora, lo splendido castello della Zisa, residenza estiva dell’Emiro, la Favara, i bagni di Cefalà Diana, la Cuba e la Cubula, il quartiere della Kalsa, i suk, i mercati della Ucciria e di Ballarò, e le moschee, più di 300, di cui oggi, trasformate in chiese cristiane, sopravvivono soltanto S.Giovanni degli Eremiti e la Martorana: splendori della Palermo araba con cui poteva stare a confronto solo Cordova. La popolazione si accrebbe fino a raggiungere il numero sorprendente di 250.000 abitanti quando, nello stesso periodo Roma ne contava non più di 30.000. Oggi a Palermo di questo favoloso splendore, di questo enorme patrimonio architettonico è rimasto ben poco, non è rimasto praticamente in piedi alcun importante edificio islamico, un fatto sorprendente data l’importanza e le dimensioni della città in quell’epoca, e chi abbia distrutto e perché tutti i grandi o piccoli edifici e quando ciò sia avvenuto è difficile da chiarire. Certamente molte distruzioni risalgono all’XI° secolo allorché i Normanni conquistarono la Sicilia togliendola agli Arabi, ma poiché i Normanni non repressero, ma anzi coinvolsero largamente i Musulmani nel loro processo amministrativo e culturale della Sicilia e si servirono largamente della loro manodopera e della loro capacità artistica è difficile credere che essi abbiano sistematicamente distrutto quasi ogni traccia della presenza architettonica araba. E’ invece più facile pensare che nel successivo periodo in cui la Sicilia fece parte del Regno cattolico di Spagna, che fondava il proprio prestigio nella vittoria sui Musulmani nella penisola iberica, siano stati gli Spagnoli ad imporre ed effettuare la sistematica distruzione di tutto ciò che rappresentava e ricordava l’Islam e la sua gloria, prime fra tutto le moschee. Anche a Siracusa, a Noto e a Catania ben poco è rimasto di quanto edificato dagli arabi sia a causa della furia iconoclasta degli Spagnoli quanto per le enormi distruzioni provocate dal terribile terremoto del 1693, che ridusse l’intera Sicilia orientale ad un campo di macerie e dalla successiva ricostruzione in stile quasi interamente barocco, cancellando, a parte rare eccezioni, qualsiasi traccia architettonica più antica, ivi incluse quelle del periodo islamico. A Siracusa è certo che la cella del Tempio di Apollo venne trasformata in moschea, come si legge in un’iscrizione musulmana tuttora osservabile sulle pietre del tempio greco, così come l’antica Cattedrale di San Marziano divenne la moschea più importante della città. Tuttavia, all’interno dell’impianto urbanistico del centro storico di Siracusa è ancora possibile leggere la presenza islamica nelle strette e contorte stradine e negli antichi cortili dell’ex-quartiere arabo di Ortigia, detto oggi della Graziella e della Spirduta, un inestricabile dedalo di vicoli, formidabile ed unico tracciato viario da autentica Kasba nordafricana. E altrettanto può dirsi di Catania, specialmente nella zona del Mercato, di impianto tipicamente arabo, e nel quartiere che circonda il Castello Ursino. Ma quanto ci manca in architettura è fortemente rimpiazzato nella lingua della Sicilia. Numerosi toponimi: Caltanissetta, Caltagirone, Caltavuturo, Calatafimi, Calatabiano, Calascibetta, Caltabellotta, ecc. derivano il loro nome da “kalat”, castello; altri, come Marsala e Marzamemi, da “marsa”, porto; altri ancora come Gibellina, Gibilmanna, Gibilrossa, Mongibello (altro nome dell’Etna) da “gibel”, montagna. E ancora Racalmuto, Regalbuto, Ragalna, Regaleali da “rahal”, casale, e Alcantara da “al-quantar”, il ponte; Misilmeri e Mezzoiuso da “musil”, fattoria, e così via. E poi abbiamo anche termini commerciali come fondaco dall’arabo “fonduk”, tariffa, sensale, dogana dall’arabo “diwan”; termini geografici come libeccio, scirocco, zenit, nadir, rimasti nell’uso comune non solo siciliano; termini agricoli come fastuca, “pistacchio”, zagara che significa “fiore”, zibibbo, giuggiulena, càlia, zotta, zuccaru, bagghiu, raìs, cafisu, carrubba, dammusu, favàra, gebbia, maìdda, saia, sciabica, zaffarana. E poi ancora termini come tabbutu, vàddara, jarrusu, mischinu, azzizzatu, mammaluccu, sciara, fitusu, giufà, elisir, sofà. Tutte parole arabe ancora vive ed attuali nel dialetto siciliano. Nella preparazione dei cibi, sono di origine araba il cuscus di carne, di pesce e di verdure, la caponata, la peperonata, la parmigiana “badinjan” di melanzane o di zucchine, la pasta con le sarde ed il finocchietto selvatico, le “stigghiole”, le panelle, i busiati, le arancine, le crespelle di riso, la cassata “quasat”, la mostarda, la cotognata, i cannoli, la ricotta, il torrone con il sesamo e le mandorle, la granita di agrumi, il sorbetto di limone “sharbat”, i mostaccioli, e finanche la straordinaria ed unica pasta reale. Sconosciuto invece il pomodoro che verrà introdotto in Europa solo molto più tardi, come le patate ed il tabacco, dopo la scoperta dell’America. In realtà, tutta la nostra cucina ha una forte impronta araba che si riconosce nell’impiego delle spezie, del cumino, del cardamomo, dello zafferano e del peperoncino piccante di cui gli arabi fanno grande uso e, nei dolci, dei chiodi di garofano, della cannella e dello zucchero. Prima degli arabi l’unico dolcificante usato era il miele. E poi tanti cognomi: Fragalà “gioia di Allah”, Vadalà “servo di Allah”, Zappalà “forte in Allah”, Cassarà, Salemi da “salam” (pace), Sciarrabba da “sharrab” (ubriacone), Saccà da “saqqa” (vivandiere o portatore d’acqua), Cangemi (barbiere), Murabito (astemio), solo per citarne alcuni. E ancora tanti modi di dire radicati nel nostro dialetto, come “Si Ddiu voli”, equivalente all’arabo “Inshallah”, e “u Signuri u binirici” che ritroviamo nell’arabo ”Allah ibarak fik” (Dio ti benedica). Oppure espressioni come “ammatula” (invano), “a bizzeffe” (in abbondanza), “sciarra” (litigio), “camula” (tarlo). E che dire della permanenza presso vari strati del nostro popolo di antichi riti di magia, credenze popolari come le “truvature”, scongiuri e pratiche che trovano la loro radice nel fondo dell’anima araba della Sicilia. Può sembrare strano, ma sedici secoli di ellenismo furono quasi completamente cancellati dall’arabismo che in poco più di duecento anni riuscì a lasciare una forte impronta che né Normanni, né Svevi, né Spagnoli o Francesi ed infine neanche i Piemontesi sono riusciti a cancellare. L’influsso della lingua araba sul lessico delle parlate dell’isola risulta perciò ancora oggi abbastanza presente, anche se la popolazione siciliana, specialmente quella delle campagne e degli strati più popolari, non rinunciò mai completamente alle proprie origini linguistiche né ai suoi costumi tradizionali. Ma nel suo linguaggio comune il popolino importò dall’arabo tutti quei vocaboli e quelle espressioni linguistiche che erano legati ai vari settori della vita quotidiana, la coltura dei campi, la tecnica di costruzione degli attrezzi agricoli dove più influenti erano le innovazioni apportate dai nuovi padroni, mentre tra le classi più colte rimase a lungo in uso la lingua greca. I costumi islamici in Sicilia, comunque, si diffusero rapidamente. Si costruiscono le prime moschee dotate di alti minareti. I nuovi quartieri residenziali s’ispirano allo stile moresco: ampie case bianche con piccole finestre. All’interno, circondato da un porticato, un patio, un cortile con fontane e piante fiorite. Alle pareti mosaici formati con piccole piastrelle variamente decorate, i pavimenti ricoperti da tappeti. I Musulmani amavano molto la vita sociale e di solito si riunivano tra loro il venerdì che era ed è, ancora oggi, il loro giorno di festa. A queste riunioni partecipavano rigorosamente solo gli uomini mentre le donne erano confinate entro le mura domestiche, nel gineceo: si beveva il tè che alcuni mercanti avevano portato dalla Cina. Erano vietatissimi il vino e gli alcoolici. Amavano molto la poesia, la musica e la danza. I loro strumenti musicali erano l’arpa, di derivazione persiana, il liuto, il tamburo e la chitarra. Non amavano mangiare da soli, quindi queste riunioni si concludevano molto spesso con interminabili banchetti costituiti, in genere, da cibi molto speziati e dai sapori forti, serviti in un unico grande vassoio posto al centro di un basso tavolo attorno al quale si accovacciavano i commensali che si servivano il cibo con le mani poiché gli arabi non usavano posate. I Musulmani tenevano molto alle buone maniere ed il loro comportamento a tavola era estremamente corretto: mangiavano a piccoli bocconi, masticavano bene, non mangiavano aglio e cipolla, e non si leccavano le dita. Curavano molto la pulizia personale, amavano i profumi, si lavavano ogni giorno e si depilavano le ascelle. Le donne si depilavano accuratamente tutto il corpo. Amavano molto la cultura ed a Palermo sorsero numerose scuole coraniche dove, oltre che imparare a leggere ed a scrivere, era molto diffuso lo studio del diritto, della filosofia, della matematica, della geometria, della medicina, dell’astrologia, e dell’astronomia che è loro debitrice di molti termini come azimut, zenit, nadir, ecc. Introdussero l’uso dei numeri arabi, così chiamati sebbene fossero di origine indiana. Qui, dai musulmani fu importato il gelso, e qui nacque di conseguenza l’industria della seta e della sua lavorazione che solo molto più tardi raggiunse il Nord-Italia. E dall’incontro dell’architettura araba con quella normanna, dopo l’anno 1000 nacque la più alta civiltà del medioevo europeo, da cui più tardi derivò quella del Rinascimento italiano. *** Abbiamo visto come la conquista araba della Sicilia abbia richiesto 138 anni di sanguinosi combattimenti ai quali seguì un lungo processo di pacificazione e di assimilazione del popolo siciliano il quale, tutto sommato, se la passò molto meglio sotto il dominio musulmano di quanto non fosse avvenuto sotto i grecobizantini. Abbiamo anche visto che il processo di arabizzazione della Sicilia durò dall’anno 827 all’anno 1091, e cioè per ben 264 anni. Per concludere questa rapida cavalcata storica e completare il quadro di quegli eventi vediamo adesso, altrettanto rapidamente, di passare in rassegna gli avvenimenti successivi. Diciamo intanto che dopo la conquista dell’Isola gli arabi cominciarono a creare delle basi anche sulle coste peninsulari italiane, aggredirono e misero a ferro e fuoco molte località costiere, si spinsero anche all’interno e risalirono la Penisola lungo le coste della Calabria, della Campania, del Lazio e delle Puglie, si impadronirono di Ostia e dell’Isola d’Elba e giunsero a porre l’assedio a Roma che, ben difesa dalle sue mura possenti, resistette però ai loro tentativi di conquista. Perciò gli arabi si accontentarono di penetrare nei sobborghi indifesi della Città mettendo però a sacco le due maggiori basiliche romane, S. Pietro e S. Paolo, che essendo allora fuori le mura furono facile preda degli invasori. Tutti i tesori che vi erano accumulati furono depredati, furono profanate le reliquie dei Santi e perfino la tomba stessa dell’Apostolo. Gli abitanti della Penisola per difendersi dovettero costruire quelle torri di guardia ancora oggi visibili lungo tutte le nostre coste, le città marinare furono fortificate, molte località costiere vennero abbandonate ed i paesi arretrarono verso l’interno. Ma poiché il racconto di questi avvenimenti ci porterebbe lontano, basti dire che l’aggressione dei Saraceni continuò per centinaia di anni e terminò solo nel 1800 quando la Francia sbarcò le sue truppe nel Nord-Africa e si impadronì dell’Algeria e, successivamente, della Tunisia e del Marocco. Torniamo dunque in Sicilia dove, intorno all’anno 1000, diverse famiglie musulmane in lotta fra loro tentarono di creare degli emirati indipendenti a Mazara, a Girgenti , a Siracusa e a Catania, indebolendo ed esautorando il potere centrale e creando un clima di rivalità, di discordie e di instabilità interna. Di questa situazione di disordine e di lotte intestine approfittarono i bizantini, da sempre mal rassegnati alla perdita della Sicilia. Nel 1038 l’imperatore Michele IV° inviò in Sicilia, al comando del generale Giorgio Maniace, un corpo di spedizione nel quale militavano anche truppe mercenarie Normanne ed esuli lombardi. Maniace riuscì a strappare ai musulmani buona parte della Sicilia orientale e si fortificò a Messina e Siracusa dove fece costruire il Castello che porta ancora oggi il suo nome, ma due anni più tardi i suoi successi militari suscitarono la gelosia e l’invidia del nuovo imperatore Costantino XI° che, vedendo in lui un possibile rivale ed un pericolo per il suo trono, lo accusò di tradimento. Maniace, si ribellò alle ingiuste accuse che gli venivano rivolte, per difendersi abbandonò la Sicilia, passò in Grecia dove sconfisse l’esercito che l’Imperatore gli aveva mandato incontro per combatterlo ma morì in combattimento. Così la sua impresa fallì ed i Saraceni ripresero possesso della Sicilia Orientale. Tuttavia il Normanno Guglielmo d’Altavilla, detto “Braccio di Ferro”, che aveva militato come mercenario nell’esercito di Maniace, era rimasto colpito dalle meraviglie della Sicilia e si era convinto delle possibilità di farsene un dominio personale a scapito dei Musulmani. Tornato in patria in Normandia, nel nord della Francia, organizzò con i suoi fratelli una spedizione militare. Fu così che nel febbraio del 1061 Guglielmo, Roberto il Guiscardo, ed il fratello Ruggero d’Altavilla, con un migliaio di cavalieri Normanni, sbarcarono a Capo Peloro per iniziare le operazioni di conquista dell’Isola. L’occupazione di Messina avvenne poco dopo e, nonostante l’arrivo di truppe musulmane di rinforzo dal Maghreb, la superiorità militare normanna si impose in un’isola ormai preda delle contese tra i piccoli signorotti musulmani. Così inizia la conquista normanna della Sicilia. In verità l’impresa non fu facile: posta provvisoriamente la loro Capitale a Troina, i Normanni solo dieci anni più tardi riuscirono a porre l’assedio a Palermo per terra e per mare. Gli Arabi opposero una difesa coraggiosa contrastando a lungo gli assalitori che riuscirono infine nell’intento di conquistare la città. Siracusa cadde in mani normanne solo nel 1086. La completa conquista dell’Isola richiese 30 anni di guerra e si concluse con la caduta di Noto nel 1091. I Normanni risparmiarono la Palermo araba. Presero possesso della splendida città senza versare sangue e senza commettervi devastazioni. Gli Arabi furono lasciati liberi di vivere a modo loro secondo la loro religione e i Normanni concessero loro una certa autonomia, nei loro palazzi usarono lo stile arabo e la lingua araba continuò ad essere insegnata. Arabi ed ebrei dovettero pagare una speciale tassa ma furono rispettati, fu loro consentito di mantenere i loro usi e costumi, e fu loro concesso di mantenere i loro tribunali. Molti funzionari arabi conservarono i loro incarichi statali e, per almeno un secolo, l’arabo rimase la lingua del governo e dell’amministrazione dello Stato anche se a Corte si utilizzarono diverse lingue: oltre all’arabo, il greco, il franco-normanno, il latino. Nonostante ciò molti arabi decisero di andarsene dalla Sicilia rispettando l’obbligo previsto dalla loro religione di non poter vivere in uno Stato dominato dagli infedeli, ma molti invece accettarono di restare in Sicilia e i soldati arabi che preferirono rimanere furono ammessi a far parte dell’esercito e della marina di Ruggero. Poi giunse la nuova ondata di immigrati franchi, di italiani, soprattutto lombardi, e di altri ancora provenienti da ogni parte dell’Occidente cristiano che i normanni chiamarono latini, in contrapposizione ai residenti siciliani che erano chiamati greci. La Sicilia tornò a far parte dell’Europa e lentamente, ma progressivamente, ebbe inizio quel lungo processo di latinizzazione, durato due secoli, che avrebbe riportato l’Isola nell’Occidente cristianizzato. Dopo la Sicilia greco-ortodossa, e dopo la Sicilia musulmana, nacque così la Sicilia cattolicoromana. Ma questa è tutta un’altra storia, di cui forse, Inshallah, se Dio vuole, avremo modo di parlare in una futura occasione.

Ugo Passanisi

STORIA E CULTURA/ L’INFLUENZA DEGLI ARABI IN SICILIAultima modifica: 2015-03-11T09:09:26+01:00da leodar1
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