DIRITTI CIVILI E POLITICI DECLINATI AL FEMMINILE – di Cecilia Càsole

grafico quote rosaIn Italia per quanto riguarda i diritti civili, le donne restano segnate da un’ impostazione culturale che, in molti casi, nella gestione degli interessi patrimoniali, non le ritiene in grado di provvedere autonomamente e perciò assoggettate all’assistenza e alla tutela del padre, del marito o chi per loro. Per ciò che concerne i diritti politici, l’esclusione delle donne dal voto, prima, e della rappresentanza in seguito, ha sostanzialmente evidenziato una contraddizione tra l’eguaglianza formale dei cittadini nel godimento dei diritti politici, così come viene dichiarato dalla Costituzione e da altre numerose disposizioni di legge, e l’effettivo godimento di questi diritti. Culture e prassi organizzative di partiti e istituzioni rendono difficile l’esercizio di tali diritti.

La “violabilità del corpo femminile”

Un altro aspetto che declassa la posizione della donna  si lega al dibattuto tema della “violabilità del corpo femminile”. La violabilità del corpo femminile si esprime ciclicamente nella formazione giuridica, come,   per  esempio,  leggi in materia di fecondazione assistita , al tentativo di ricorrere alla negazione del diritto di aborto. Un problema che emerge in tutta la sua drammaticità nel fenomeno della violenza sessuale nei confronti delle donne. La legislazione italiana è intervenuta  nel 1996 con la legge 15 febbraio n. 66  (Norme contro la violenza sessuale); nel 2001 con la legge 4 aprile n.154 (Misure contro la violenza nelle relazioni familiari); nel 2009 con l’approvazione del decreto sul reato di stalking ( 23 febbraio, n. 11, c.d. “ Decreto sicurezza), che ha introdotto nel nostro ordinamento il reato di “ Atti persecutori”; nel 2013 con legge 15 ottobre n. 119 , l’Italia ha approvato il reato di “ Femminicidio” recependo le direttive contenute nella  Convenzione del Consiglio d’Europa, fatta a Istanbul l’11 maggio 2011, concernente la lotta contro la violenza sulle donne e la violenza domestica.

La cosiddetta Seconda Repubblica

L’inizio degli anni Novanta ha coinciso con la questione di “Tangentopoli” , scandalo che compromise l’immagine dei partiti. Una serie d’ indagini giudiziarie misero al banco degli imputati esponenti della politica, dell’economia e della finanza, accusati di concussione, corruzione e finanziamento illecito ai partiti. L’operazione soprannominata “ Mani Pulite” fu sostenuta  dai magistrati ( Antonio Di Pietro in prima fila)  della Procura della Repubblica di Milano. Molti furono gli arresti e grave fu la crisi che investì le tradizionali divisioni partitiche. Dipese, probabilmente, dal desiderio  di chiudere con un sistema politico macchiato dalla vernice dell’illegalità, il fatto che venne dato avvio a una nuova fase, definita della  “ Seconda Repubblica”, erroneamente giacché  rimase in vigore la Costituzione del 1948.Il primo tentativo di voltare pagina si espresse nella modifica del sistema elettorale in senso maggioritario e dall’ascesa dei due partiti di maggioranza: “Ulivo” e “Casa delle libertà”. A ciò fece seguito un periodo di grande partecipazione politica femminile. Il 1994 fu l’anno in cui si registrò il numero più elevato di donne in parlamento  e ciò per due motivi principali. Il primo risiedeva nella ricerca di “volti nuovi” che intendeva trasmettere il messaggio che “ la politica sta cambiando”. Il  secondo, più importante, riguardava l’iniziativa dell’allora presidente della Commissione pari opportunità, Tina Anselmi,  che promosse  l’approvazione della legge elettorale n.277 del 1993, c.d. Mattarellum[2] (dal nome del proponente Sergio Mattarella, eletto presidente della Repubblica il 31 gennaio 2015),la quale stabilì che il 25% dei seggi fosse attribuito secondo il sistema proporzionale e che le liste dei candidati dovessero presentare uomini e donne in ordine alternato e la nuova legge per le Regioni, presentata in Parlamento da Pinuccio Tatarella, chiamata per questo Tatarellum”: legge regionale del 23 febbraio 1995 n.43,  attribuiva l’80% dei seggi consiliari con un meccanismo proporzionale con voto di preferenza e il 20% con metodo maggioritario plurinominale. In seno alla 277 del 1993 fu sollevata una questione di legittimità Costituzionale.  La Corte chiamata a esprimersi dichiarò l’incostituzionalità della legge, motivo per cui le successive elezioni del ’96 si svolsero senza l’obbligo delle quote rosa.

 Principio di uguaglianza

Il 1996 ha rappresentato una rottura tra mondo delle donne e mondo della politica sia per l’inaspettata sentenza della Corte costituzionale sia  perché la frattura si riflette all’interno dei partiti di sinistra che negli anni Ottanta erano stati i primi fautori della rappresentanza di genere. Secondo i giudici della Corte costituzionale  il principio di uguaglianza “ si poneva prima di tutto come regola di irrilevanza giuridica del sesso e delle altre diversità contemplate dai divieti di discriminazione stabiliti dall’art. 3 della Costituzione.”  “Nel caso delle quote elettorali la Corte costituzionale ha deviato da questo modo di intendere il principio di eguaglianza, perché ritiene che una differenza di trattamento basata sul sesso non potrà mai considerarsi ragionevole poiché si basa su una diversità da cui la Costituzione impone di prescindere”[3]. Tutto ciò impediva di rispondere a esigenze concrete che non potessero essere giustificate dai giudici della Corte sulla base del rispetto verso articolo 3. Esistono situazioni, così come la legge stessa prevede, che debbono essere affrontate caso per caso, e che devono tenere conto di una diversità  che,  seppur in linea di principio inesistente, investe certe categorie sociali che vengono stigmatizzate come diverse. Non basta un principio di divieto di discriminazione,  ma sono necessarie ulteriori disposizioni che rendano concreto il divieto e,  soprattutto, intervengano non per erogare  vantaggi quanto per impedire  situazioni svantaggiose,  che  determinati gruppi sociali, nel nostro caso le donne, potrebbero subire in virtù di un sistema che,  di fatto, non le considera uguali agli uomini.

Criterio di ragionevolezza

In tal modo la giurisprudenza, de facto,  ha attenuato la rigidità di un enunciato dell’eguaglianza, che contiene  norme generali e universali,  attraverso un criterio di ragionevolezza che ha concesso la formulazione di regole particolari e differenziate. Trattare allo stesso modo situazioni obiettivamente differenti significherebbe creare discriminazioni nei confronti di quei soggetti che hanno bisogno di una maggiore tutela rispetto ad altri. Se lo Stato non interviene per aiutare i soggetti che si trovano in posizioni di svantaggio, costoro saranno costretti a rimanere in un perenne stato di inferiorità. La valutazione delle diversità spetta al legislatore, il quale per poter giustificare il ricorso alla disparità di trattamento dovrà attenersi a un criterio di ragionevolezza. Si è dovuto aspettare il 2003 per la modifica dell’articolo 51 della Costituzione   “ Tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. A tal fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini”.

L’articolo volle affermare che:

–                     il principio di parità non impedisce l’adozione di misure a favore delle donne comunemente definito “ sesso sottorappresentato”;

–                     non basta l’enunciazione di un principio antidiscriminatorio,  ma sono indispensabili azioni positive volte a garantirne l’effettività;

–                     la parità riguarda tanto il diritto di eleggere quanto il diritto di essere elette.

 Il 2005 è segnato da un indicativo intervento nella legislazione elettorale. In Italia furono tre gli emendamenti al disegno di legge elettorale 270 del 21 dicembre  2005, due emendamenti dell’opposizione di centro-sinistra e uno dell’allora Casa delle Libertà, forza di governo. Nota agli Italiani come “Porcellum” stabiliva “ modifiche alle norme per l’elezione delle camere dei deputati e del Senato della Repubblica”. Nei consessi in cui si è dibattuto e si dibatte di quote rosa, si assiste sovente a un approccio da società patriarcale alla figura femminile, una deminutio della donna a creatura da proteggere e preservare. Non da ultimo l’iter di approvazione parlamentare della proposta di legge che imporrebbe alle società quotate con partecipazione pubblica una quota rosa nei rispettivi consigli d’amministrazione.[4]

La rappresentanza di genere. La legge Golfo – Mosca

La legge Golfo – Mosca – n.120 del 12 agosto 2011– , dal nome delle due parlamentari che l’hanno proposta,  Lella Golfo e Alessia Mosca,  tratta il tema della rappresentanza di genere nei vertici dirigenziali delle aziende. Essa contiene “ modifiche al testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, di cui al d.lgs. 24 febbraio 1998 n. 58 concernenti la parità d’accesso agli organi di amministrazione e di controllo delle società quotate”. L’articolo 1 del medesimo articolo dispone “ l’equilibrio tra i generi negli organi delle società quotate”. Della legge è stata prevista una validità temporale di soli dieci anni: le donne a partire dal secondo e terzo rinnovo degli organi sociali, devono essere pari ad almeno un terzo, fino al 2022, data in cui  la legge cessa di avere efficacia. La durata della normativa, determinata preventivamente, non è casuale, in quanto si presume che in quel lasso di tempo siano state ampiamente abbattute tutte quelle forme di ostacoli che paralizzano l’avanzamento delle donne nei ruoli di vertice. Con questa norma è stata data alle società maggiore autonomia statuaria sulle nomine dei sindaci e dei consiglieri. La legge Golfo-Mosca non ha soltanto mobilitato il mondo delle società, ma anche e soprattutto quelle a partecipazione pubblica. Al riguardo è stata prevista la pubblicazione del regolamento che disciplinerà la parità di genere nelle società a partecipazione pubblica.[5] È vero, quindi, che ancora oggi le donne subiscono,  in certi campi, azioni discriminatorie,  ma è allo stesso tempo innegabile che dagli anni Settanta agli anni Duemila ci sia stata una importante crescita della presenza femminile in Parlamento e nella politica negli anni ’70 la percentuale di rappresentanza delle donne in Parlamento raggiungeva  il 3,7%, a oggi ruota intorno al 28,8%. L’Istat ci fornisce i dati di questo progresso (grafico).

Cecilia Càsole

DIRITTI CIVILI E POLITICI DECLINATI AL FEMMINILE – di Cecilia Càsoleultima modifica: 2015-02-09T08:58:38+01:00da leodar1
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