LA RAPPRESENTANZA DELLE DONNE NEGLI ORGANISMI ISTITUZIONALI – di Cecilia Càsole

sIl 2014 è stato segnato da un’importante  legge regionale che potrebbe essere d’esempio per le altre regioni. L’assemblea regionale dell’Emilia Romagna ha approvato, con la sola eccezione di Forza Italia (che già in precedenza si era espressa contro l’introduzione delle “ quote rosa”) la legge quadro n. 6/2014 per la parità e contro le discriminazioni di genere. Sono ben 45 articoli che investono diverse tematiche per contrastare le disparità di trattamento basate sul sesso nell’ambito lavorativo e favorire l’accesso alle politiche.  In Emilia Romagna, dunque, le prossime elezioni si svolgeranno con l’obbligo di garantire una rappresentanza egualitaria tra uomini e donne . “ Verrà elaborata un’apposita sezione di genere nell’albo regionale delle nomine, dovranno essere varati bandi pubblici fatti per premiare i soggetti che applicano principi egualitari e antidiscriminatori “. Per quanto riguarda, invece,  il settore lavoro verrà istituito un credito ad hoc per le imprese al femminile, sarà promosso un giro di vite contro il fenomeno delle dimissioni in bianco, e tutte le procedure a evidenza pubblica dovranno individuare criteri di selezione e/o punteggi premiali a favore delle aziende che adottano azioni per la parità di genere”. L’esperienza dell’Emilia Romagna dimostra quanto può essere rilevante l’apporto regionale nell’incentivare le aziende ad aumentare l’assunzione delle donne. Per quanto riguarda il ruolo della formazione locale, l’art 117 c. 2 lett.p Cost. assegna la “legislazione elettorale” di comuni e province alla competenza statale,  ma ammette che l’ente locale possa agire autonomamente nell’ambito di quello che la legge ha lasciato come “spazio libero”. L’art. 6 del d.lgs. 267 del 2000 (Testo Unico degli Enti Locali) invita gli enti locali a “ promuovere la presenza di entrambi i sessi nelle giunte e negli organi collegiali del comune e della provincia, nonché degli enti, aziende e istituzioni da essa dipendenti”.

Facendo riferimento agli “organi collegiali”,  la norma si riferisce all’obbligo di garantire la presenza di entrambi i sessi all’interno delle giunte, mentre rimane il dubbio se nell’espressione “organi collegiali” si possa includere anche la carica di consigliere. A fronte di disposizioni normative così vaghe, nel 2009 il Tar Puglia, con l’ordinanza n.740, ha annullato i provvedimenti di sindaci e presidenti di provincia con i quali erano stati nominati assessori tutti appartenenti al genere maschile, stabilendo l’ammissione di nomine dello stesso sesso  all’interno della giunta a condizione che tali nomine contengano un’esplicita motivazione che giustifichi la presenza di sole donne   o soli uomini. Riassumendo: la Corte costituzionale è intervenuta per abrogare le disposizioni della l. 81/1993[2] le quali prevedevano una presenza non superiore ai due terzi di candidati dello stesso sesso nelle liste; il testo unico degli enti locali prevede una chiara disciplina sul rispetto di una presenza minima delle donne nella rappresentanza elettorale;  il giudice amministrativo è dovuto intervenire per ovviare al problema delle nomine non vincolate da un obbligo di presenze minime di entrambi i sessi.  Poste queste condizioni, si è inteso interpretare in senso non restrittivo l’art. 51 Cost., prevedendo l’adozione di misure minime, per garantire la presenza equilibrata dei due sessi, pena la violazione del diritto.

Uno sguardo alla storia

Che cosa ha significato il XX secolo  per le donne del nostro Paese? Non è facile spiegare quanto la storia ci insegna sul percorso femminile relativo alla conquista dei diritti sociali e del lavoro. Non è facile spiegarlo sotto il profilo della fatica psico-fisica che le donne hanno impiegato per la conquista di molti diritti che,  sebbene fossero scritti sulla carta, di fatto non venivano riconosciuti. E’ la stessa storia a fornirci dati indiscutibili sulla mobilitazione delle donne .

Per capire il modello di partecipazione politica in Italia, è opportuno riferirsi al modello di democrazia che ha caratterizzato il nostro Paese dopo la seconda guerra mondiale.   L’Italia del dopoguerra riflette un modello “ di democrazia consociativa a frattura ideologica”. Tale nozione indica la competizione tra i due maggiori partiti  PCI ( Partito Comunista Italiano ) e DC ( Democrazia Cristiana), negli anni in cui dominava nello scenario mondiale la contrapposizione fra le maggiori potenze USA e URSS. La massiccia partecipazione alla vita politica del Paese si presentò nel 1946, quando i cittadini furono chiamati a votare per la scelta fra Monarchia e Repubblica. In quell’ occasione, per la prima volta, le donne poterono manifestare la loro preferenza che si espresse nella maggior parte per la forma repubblicana. A quel punto, i partiti si resero conto che occorreva coinvolgere le donne nella politica, non tanto perché intendevano elevare la posizione sociale della donna quanto per un fine meramente opportunistico di acquisizione di voti e  consensi.   C’era aria di novità, di cambiamento. Un nuovo periodo storico in cui le donne,  finalmente,  potevano  ritenersi pari agli uomini e non semplicemente perché una cultura repubblicana suggeriva un nuovo modello di donna che poteva godere del diritto di voto e, quindi,  fosse in grado e avesse il diritto di esprimere un pensiero, una preferenza,  ma perché lo diceva la Carta fondamentale dello Stato nel 1948 ( prima di tutto nell’articolo 3 ) . Dieci anni dopo a confermare  la svolta fu l’adozione della Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali – così come modificata dai successivi protocolli – ( legge 4 agosto 1955 n.848 )[3], che si preoccupò sin dai primi articoli delle donne e della loro tutela. L’articolo 14 della Convenzione, titolato “divieto di non discriminazione”,  non lascia spazio a interpretazione  :  “ Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o di altro genere, l’origine nazionale o locale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita o ogni altra condizione”. Ed effettivamente, in quegli anni si registrò una maggiore partecipazione delle donne nella politica in qualità di elettrici mentre per il riconoscimento dell’accesso alle candidature, ancora i tempi non erano maturi. Non stupisce, quindi, che in Italia benché ci sia stato per lungo tempo un sistema elettorale di tipo proporzionale [cioè un sistema che mira a riprodurre in un organo di rappresentanza le proporzioni delle diverse parti dell’elettorato], poche donne hanno goduto del  vantaggio di essere elette in Parlamento e ciò è stato causato principalmente dal processo di selezione partitica. Da un lato il PCI, avente una struttura centralizzata e altamente burocratizzata,  ha incentivato l’entrata di donne all’interno del partiti, dall’altro la DC,  caratterizzata da una molteplicità di correnti politiche legate a personalismi, ha invece precluso l’accesso a coloro che erano privi di risorse politiche personali. La composizione delle liste di candidati viene, dunque, gestita dai vertici del partito. Gli anni  Cinquanta sono gli anni in cui nascono i sindacati per la rappresentanza femminile, aumenta il numero delle militanti nella politica,  viene  istituita l’ ANDE (Associazione Donne Elettrici), e le piazze vedono per la prima volta le donne al microfono dei comizi. I partiti protagonisti dello scenario politico DC e PCI  risultano, ancora, poco aperti ad accogliere “ la questione femminile” all’interno dei loro programmi di azione. Le donne, allora, decidono che è il momento di agire. Comprendono che è arrivato il tempo di opporsi a un sistema incentrato sulle esigenze del sesso maschile. Nascono, così, le associazioni  CIF ( entro Italiano Femminile) e  l’UDI (Unione Donne Italiane ). Saranno le donne riunite in gruppi coesi a rivendicare i propri diritti, e lo faranno in un contesto sociale ed economico in evoluzione. Tuttavia, nonostante l’aumento delle fabbriche, conseguenza di un innovativo processo di industrializzazione e modernizzazione del Paese, alle donne rimangono riservati i vecchi comparti. Le ragioni della sottorappresentanza  nella politica possono essere ricondotte ai metodi di reclutamento della politica. Metodi che non sono andati incontro a significative modifiche dai tempi della Costituzione ad oggi. I partiti, infatti, sono “libere associazioni di cittadini per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale del paese”. Tale principio valeva anche quando erano previsti i finanziamenti pubblici ai partiti.  In quanto libere associazioni, i partiti rispondono  alle regole contenute nel codice civile, per ciò che concerne i requisiti obbligatori per potere creare un’ associazione, mentre per ciò che riguarda la composizione interna e la formazione delle liste per le assemblee rappresentative, sono autonomi, potendo anche eludere gli obblighi indicati dall’art. 51 della Cost.

2.2  I movimenti e la “Questione femminile”

Nella prima conferenza delle ragazze comuniste del 1954, Palmiro Togliatti, leader storico del PCI , ribadisce la necessità di spingere un acceleratore nel processo di emancipazione femminile. Del resto, la sinistra rispetto alla destra è stata la parte che ha accolto con maggior sensibilità la questione della rappresentanza di genere nell’agenda politica. Negli anni dal  ‘61 al  ‘67, nonostante il legislatore avesse cominciato a produrre norme meno protezionistiche e maggiormente mirate a tutelare le donne in quanto tali, e non in quanto “ mezze forze” ( ad es. la legge 66 del ’63 che apriva alle donne l’accesso alla magistratura, alla polizia ed ai gradi elevati della P.A.) si verificò una vertiginosa caduta dell’occupazione in generale , ma a risentirne furono soprattutto le donne. Evidentemente i mezzi di tutela a garanzia del lavoro femminile, finivano, in periodi di crisi, per ripercuotersi negativamente sulle stesse donne, poiché facevano aumentare il costo della manodopera femminile, disincentivandone l’impiego da parte degli imprenditori. Le donne quindi continuarono a essere svantaggiate anche nell’ambito del diritto penale, a causa di alcune norme, emanate durante il ventennio fascista, fortemente contrastanti con il principio di parità morale e giuridica dei coniugi, successivamente proclamato dall’art 29 della Cost. La questione della rappresentanza delle donne, legata alla bassa partecipazione negli organismi istituzionali ha acquisito un posto di rilievo all’interno del dibattito pubblico  e all’interno dell’arena politica, soprattutto perché si presenta non solo in termini di ritardo rispetto agli altri paesi europei,  ma anche perché gli studi statistici dimostrano che si pone come una tendenza di lungo periodo. Oggi, il nostro Paese occupa gli ultimi posti tra i paesi più sviluppati per ciò che concerne la presenza del sesso femminile in parlamento. Le ricerche nel campo della questione femminile in Italia hanno sviluppato una spiegazione secondo cui la sottorappresentanza dipenderebbe non solo dalla tipologia del sistema partitico ma anche dalle caratteristiche dei movimenti femminili che si sono formati intorno agli anni Settanta, in quanto operarono una cesura totale, sia rispetto al movimento di emancipazione liberal-borghese  sia  al movimento socialista che avevano portato avanti le battaglie per la tutela delle donne lavoratrici, sia rispetto al movimento sindacale  e ai gruppi di sinistra, che avevano lottato per ottenere diritti di parità di genere. Il movimento si concentrò sulla rivendicazione dei diritti della donna per ribaltare un sistema imperniato sull’impostazione patriarcale e non aveva considerato l’importanza di una battaglia nel campo delle riforme istituzionali. La questione della rappresentanza delle donne, legata alla bassa partecipazione negli organismi istituzionali,  ha acquisito un posto di rilievo all’interno del dibattito pubblico  e all’interno dell’arena politica, soprattutto perché si presenta non solo in termini di ritardo rispetto agli altri paesi europei,  ma anche perché gli studi statistici dimostrano che si pone come una tendenza di lungo periodo. Oggi, il nostro Paese occupa gli ultimi posti tra i paesi più sviluppati per ciò che concerne la presenza del sesso femminile in parlamento. Le ricerche nel campo della questione femminile in Italia hanno sviluppato una spiegazione secondo cui la sottorappresentanza dipenderebbe non solo dalla tipologia del sistema partitico ma anche dalle caratteristiche dei movimenti femminili che si sono formati intorno agli anni Settanta, in quanto operarono una cesura totale, sia rispetto al movimento di emancipazione liberal-borghese  sia  al movimento socialista che avevano portato avanti le battaglie per la tutela delle donne lavoratrici, sia rispetto al movimento sindacale  e ai gruppi di sinistra, che avevano lottato per ottenere diritti di parità di genere. Il movimento si concentrò sulla rivendicazione dei diritti della donna per ribaltare un sistema imperniato sull’impostazione patriarcale e non aveva considerato l’importanza di una battaglia nel campo delle riforme istituzionali. Eppure, gli anni Settanta sono gli anni in cui ancora di più la “Questione femminile” assume una dimensione sovranazionale; quando nel 1966 fu adottato dall’Assemblea Generale  dell’ONU il Patto Internazionale sui diritti civili e politici entrato in vigore il 23 marzo 1976)[4].

Sia nell’articolo 2 che nell’articolo 25 del Patto troviamo una chiara disciplina sulle modalità di tutela e di esplicazione dei diritti sia essi politici sia civili, nel rispetto dei princìpi di uguaglianza e non discriminazione. Per agevolarne la comprensione vengono riportati interamente gli articoli:

–                     articolo 2 “ Ciascuno degli Stati parti del presente Patto si impegna a rispettare e a garantire a tutti gli individui che si trovino sul territorio e siano sottoposti alla sua giurisdizione i diritti riconosciuti nel presente Patto, senza distinzione alcuna, sia essa fondata sulla razza, il colore, il sesso, la lingua, la religione, l’opinione politica o qualsiasi altra opinione, l’origine nazionale o sociale, la condizione economica, la nascita o qualsiasi altra condizione”.

–                     articolo 25 “ Ogni cittadino ha il diritto, e deve avere la possibilità, senza alcuna discriminazione menzionate all’articolo 2 e senza restrizioni irragionevoli: a) di partecipare alla direzione degli affari pubblici, personalmente o attraverso rappresentanti liberamente scelti; b) di votare e di essere eletto, nel corso di elezioni veritiere, periodiche, effettuate a suffragio universale ed eguale, ed a voto segreto; c) di accedere, in condizioni generale di eguaglianza, ai pubblici impieghi del proprio paese.

La lettera b) dell’articolo 25 espressamente dichiara l’uguale diritto di “votare ed essere eletto”. Invece, il tragitto dall’ enunciazione dell’ “essere elette”  come diritto, alla introduzione concreta di  strumenti volti a garantire la reale possibilità di “ essere elette”, è stato lungo e non poco faticoso. L’aspetto internazionale del tema sulla parità e l’uguaglianza dei cittadini va oltre l’ambito dei diritti civili e politici summenzionati, inserendosi nel campo economico, sociale e culturale all’interno di un accurato Patto Internazionale sui Diritti Economici, Sociali e Culturali (adottato dall’Assemblea Generale il 6 dicembre 1966, è entrato in vigore il 3 gennaio 1976), legge n.88, 25 ottobre 1977. [5] Nell’articolo 2 comma 2 “ gli Stati parti del presente Patto si impegnano a garantire che i diritti in esso enunciati verranno esercitati senza discriminazione alcuna, sia essa fondata sulla razza, il colore, il sesso, la lingua, la religione, l’opinione politica o qualsiasi altra opinione, l’origine nazionale o sociale, la condizione economica, la nascita o qualsiasi altra condizione”. Nel successivo articolo 3 “ gli Stati parti del presente Patto si impegnano a garantire agli uomini e alle donne la parità giuridica nel godimento di tutti i diritti economici, sociale e culturali enunciati nel presente Patto”. Il ruolo delle normative introdotte al di là del territorio nazionale è rilevante perché ha permesso di dare maggiore risalto al ruolo delle donne e alla loro tutela, e a maggior ragione ha imposto agli Stati membri, sia  vincoli normativi cui devono attenersi, sia il dovere di provvedere alla realizzazione di strumenti idonei a garantire la piena partecipazione delle donne alla vita politica, sociale, culturale, economica del Paese . Un decisivo passo avanti si ebbe con la legge n.125 del 1991 (Azioni positive per la realizzazione della parita’ uomo-donna nel lavoro). Tale provvedimento volle favorire l’inserimento nel mondo del lavoro e la carriera delle donne adottando le cosiddette “ azioni positive”, volte a rimuovere gli ostacoli che, di fatto, impediscono la realizzazione delle pari opportunità tra uomo e donna. Le azioni positive  mirano a estirpare le disparità di fatto di cui le donne sono vittime nell’accesso al lavoro, nelle progressioni di carriera; nell’accesso ai settori professionali; nel favorire l’equilibrio tra responsabilità familiari e professionali e un’ equa ripartizione di tali responsabilità fra i due sessi. Tuttavia, la circostanza che ancora nel 2014 si stia cercando di comprendere quali siano gli ostacoli che hanno impedito alle donne di raggiungere posizioni apicali, lascia perplessi e alquanto delusi. Probabilmente,  oltre alle difficoltà organizzative dei movimenti femminili degli anni Settanta,  che non hanno individuato sin dall’inizio le questioni su cui fare leva, le ragioni che hanno influito sulla lontananza delle donne dalla politica e dalle istituzioni sono altre, imputabili alle culture e alle pratiche discriminatorie messe in atto all’interno delle organizzazionib istituzionali, laddove  i vertici delle organizzazioni esclusivamente maschili, l’organizzazione del lavoro e i meccanismi cooptativi tendono costantemente a penalizzare le donne affidando loro  mansioni che implicano grandi carichi di lavoro e responsabilità, ma poco visibilità e poco potere. Difatti, nonostante la crescita della presenza femminile nei partiti, i segretari di partito in Italia sono pressoché uomini e la presenza femminile negli organi dirigenti dei partiti è assai scarsa. La letteratura sociologica ed economica si è occupata del tema dell’occupazione femminile in termini di segregazione orizzontale cioè la concentrazione dell’offerta di lavoro in alcuni settori e professioni altamente femminilizzati, e in termini di segregazione verticale  ossia la maggiore presenza femminile nei livelli più bassi della scala gerarchica nell’ambito di una stessa occupazione. La segregazione verticale si riferisce al c.d. soffitto di cristallo che impedisce alle donne l’avanzamento di carriere e non permette loro di ricoprire funzioni dirigenziali. La segregazione occupazionale diventa un problema giacché le donne di oggi hanno tutte le credenziali per potere occupare posti di vertice.  La leva più importante, infatti, per la crescita occupazionale femminile è stata l’innalzarsi dei livelli di istruzione per potere competere nel marcato del lavoro, il quale ha visto una maggioranza di donne solo nel settore dei servizi.[6] Ciò nondimeno, il rapporto tra donne e politica, tradizionalmente assai poco tematizzato dagli studiosi costituisce il nodo più problematico rispetto a una visione evoluzionistica della cittadinanza, poiché le donne accedono ai diritti politici non solo più tardivamente,  ma con difficoltà che appaiono ancora in via di risoluzione.

Cecilia Càsole

LA RAPPRESENTANZA DELLE DONNE NEGLI ORGANISMI ISTITUZIONALI – di Cecilia Càsoleultima modifica: 2014-12-15T08:59:11+01:00da leodar1
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