DA DAMASCO AL CAIRO. L’INVERNO ARABO

Un’analisi socio-politica dell’augustano Fabrizio Giovanni Vaccaro

 vaccaro fabrizioAUGUSTA: Il 25 gennaio 2016 al Cairo non è un giorno come gli altri. Esattamente cinque anni prima era scoppiata la rivolta contro il trentennale governo di Hosni Mubarak poi costretto, di lì a poco, a dimettersi. A quell’evento seguì un periodo di transizione che con alti e bassi portò, sotto la supervisione dell’esercito, ad elezioni libere tra il maggio e il giugno del 2012.  Gli obiettivi della rivoluzione, perlomeno quelli dell’autodeterminazione democratica, erano stati raggiunti. Il popolo aveva scelto il suo governo, ma un’ombra aleggiava ancora sul paese.  Il risultato elettorale aveva visto, infatti, la vittoria della famigerata Fratellanza Musulmana. Il nuovo presidente dell’Egitto era uno dei suoi leader: Mohamed Morsi. Pur marginalizzati dalla dittatura Mubarak, i Fratelli Musulmani avevano mantenuto un’organizzazione eccellente. E così, nel vuoto politico che i trent’anni di dittatura avevano lasciato, non ebbero difficoltà a prevalere su una concorrenza evanescente e spezzettata. Il tutto, però, lasciava l’amaro in bocca a quella gioventù progressista e liberale che dapprima aveva ispirato la rivolta, ma che poi si era mostrata incapace di tutelarne i principi. Di fatto, i timori di quella gioventù idealista e progressista sembrarono giustificati dalle politiche accentratrici del primo anno di governo Morsi. Anche se, a rigor del vero, una valutazione critica e imparziale di quell’anno di governo meriterebbe ben più di un approfondimento. Fatto sta che, a un anno dalla sua elezione, Mohammed Morsi viene arrestato, il 3 luglio 2013, su mandato del Comandante in capo delle Forze Armate egiziane, Abdel Fattah Al Sisi. Le accuse sono quelle di istigazione alla violenza e di spionaggio.  Il popolo egiziano, nel frattempo, era già sceso in piazza, da pochi giorni, contro il governo dei Fratelli Musulmani, accusandolo di autoritarismo e confessionalismo. La folla aveva  anche attaccato ed incendiato le sedi del partito dei Fratelli Musulmani, il Partito Libertà e Giustizia. Ma, al tempo stesso, non mancavano i sostenitori del presidente destituito che, appena un anno prima, aveva raccolto il 51% dei consensi.  Tuttavia ogni forma di opposizione venne sanguinosamente repressa. I Fratelli Musulmani messi al bando e dichiarati illegali, in massa uccisi o fatti sparire.

E con il più importante partito egiziano del post-Mubarak fuori dai giochi, si arrivava alle elezioni presidenziali del 26-27 Maggio 2014. Elezioni libere? Non è dato saperlo. Ma, con il 97% delle preferenze, il principale responsabile della repressione della Fratellanza Musulmana in Egitto, Abdel Fattah al Sisi, diveniva il nuovo Presidente egiziano. Quanto fosse rimasto, a quel punto, dell’originario spirito della rivoluzione del 2011 può essere oggetto di dibattito. Ma fuori questione è quanto nell’Egitto di oggi sia rimasto dello spirito del 2011: molto ma molto poco se non nulla. Pur dovendo riconoscere al governo al Sisi l’indiscutibile merito di aver riportato l’ordine in un paese che, per tre anni, era rimasto bloccato dal caos, alcuni dubbi sul suo operato restano. A prescindere dalle continue accuse, peraltro sempre respinte, di violazione dei diritti umani, con decine di migliaia di oppositori politici imprigionati, torturati o uccisi, è indicativo il fatto che il 25 gennaio 2016 a piazza Tahrir, al centro del Cairo, non ci fosse nessuna commemorazione della rivoluzione del 2011. E questo non per dimenticanza, ma perché il governo aveva vietato, per motivi di “sicurezza”, gli assembramenti. Di quella gioventù idealista, liberale e progressista che aveva guidato la rivoluzione del 2011, inoltre, si sembrano perse le tracce. La paura di essere perseguitati perché critici verso il governo è molta. E le condanne per partecipazioni a manifestazioni non autorizzate fioccano.  Il 25 gennaio scorso, quindi, a piazza Tahrir e per le vie del centro non ci sono manifestanti, ma solo un enorme dispiegamento di forze armate. Ed è in questo contesto che Giulio Regeni, lo studente italiano al Cairo per una tesi di dottorato, viene rapito. Come purtroppo ben sappiamo, verrà ritrovato alcuni giorni dopo, il 3 febbraio, alla periferia della città. La morte, come certificato dai rilievi medico-legali, sarebbe avvenuta 3-4 giorni prima, e dopo giorni di inumane torture. Ma perché? E chi sarebbero i responsabili? Secondo gli inquirenti italiani il ragazzo sarebbe stato catturato, e poi ucciso, per la rete di contatti che aveva costruito, per la sua tesi, nel mondo del sindacalismo indipendente egiziano. I responsabili, dunque, sarebbero da ricercare tra le forze di sicurezza egiziane. Supposizioni fermamente respinte e escluse, ovviamente, dalle autorità egiziane. Un episodio triste e tragico che si inserisce, secondo persone vicine alla vittima, in un contesto di sistematica repressione ed intimidazione dei dissidenti. Una tragedia che, al di là della sua intrinseca inaccettabilità e spietatezza, apre gli occhi a un occidente che per troppo tempo ha guardato con superficialità e distacco all’evolversi delle Primavere arabe. Dalla Tunisia all’Egitto, passando per la Libia e la Siria, a cinque anni dallo scoppio delle rivolte l’ottimismo ha lasciato il posto ai dubbi e alle perplessità. Fatta eccezione per la Tunisia, dove il sistema democratico messo in piedi sembra avere una certa stabilità, in nessuno degli altri paesi si è instaurato un processo positivo. Anzi. In Libia, dopo l’esecuzione di Mu’ammar Gheddafi, si assiste a una sanguinosa guerra civile tra fazioni nemiche in lotta per il potere. In Egitto si vivono le contraddizioni di cui sopra. In Siria, dove l’occidente aveva finanziato in prima persona i sedicenti ribelli anti-Assad, si è assistito inermi all’ascesa dei terroristi del Daesh, che si sono addirittura dotati di un’organizzazione statuale. Ad oggi è forse proprio la Siria la più temibile bomba ad orologeria. Turchia, Iran, Arabia Saudita, Israele, Stati Uniti, Russia, Comunità Europea: tutti, chi più chi meno, hanno interessi da difendere in questa regione e lo fanno, in molti casi, col piombo e con le bombe. A patirne, come in tutti i conflitti, la popolazione civile. I civili della Siria e dell’Iraq, in particolare, vivono sofferenze enormi; e la Comunità Internazionale, rappresentata dall’ONU, si dimostra nuovamente inadeguata a garantire i diritti dei più deboli. E’ indubbio che una Rivoluzione, in quanto tale, è un processo lungo, che passa attraverso fasi di ottimismo e di buio. Ma – è altrettanto vero – la Primavera araba appare oggi lontanissima. La dicitura di Inverno arabo risulta, invece, più che mai indicata.

 

      Fabrizio Giovanni Vaccaro

DA DAMASCO AL CAIRO. L’INVERNO ARABOultima modifica: 2016-02-11T21:17:43+01:00da leodar1
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