I “carusi” nelle solfatare della Sicilia ovvero quando i bambini siciliani venivano venduti o “affittati” per lavorare nudi nelle miniere di zolfo anche 16 ore al giorno

Un saggio rigoroso e commovente, fra  storia e letteratura –  di Ugo Passanisi

solfatareDiscutere il tema dei carusi significa rievocare una delle pagine più tragiche, umilianti e vergognose, ma anche meno conosciute della storia del popolo siciliano. Una storia, in ogni caso, peculiare della Sicilia che non trova alcun paragonabile riscontro in avvenimenti consimili in altre regioni del nostro Paese. Quella dei carusi è una vicenda che inizia nel 1700 e che si sviluppa per oltre due secoli fino alla metà del ‘900.  Inizia con i Borboni ai quali sopravvive, e continuerà in seguito anche dopo l’annessione del Regno delle Due Sicilie alla corona dei Savoia e alla proclamazione a primo re d’Italia di Vittorio Emanuele II.   Con il nuovo regime, infatti, nulla cambia per la Sicilia, anzi, le rivolte contadine contro il latifondo sono soffocate nel sangue dai garibaldini di Nino Bixio, come è avvenuto – ma non sarà il solo caso – con il processo sommario e l’eccidio di Bronte.  I grandi proprietari terrieri hanno mantenuto saldamente nelle loro mani il possesso del territorio, e sono andate deluse le grandi attese di riscatto riposte in Garibaldi e nel nuovo regime dai braccianti affamati di terra – i cosiddetti “picciotti” tanto esaltati dalla retorica risorgimentale – che pure, per questo motivo e con questa speranza  sono accorsi in massa sotto le sue bandiere. La Destra storica ha imposto ancora una volta la sua legge e, come sotto i Borboni, la miseria continua a regnare sovrana nelle campagne dell’Isola. Questa premessa è indispensabile per spiegare le ragioni profonde che, nella seconda metà dell’800 e nel primo ‘900, hanno determinato l’esodo massiccio di migliaia di siciliani, giovani, vecchi e bambini, non solo verso le Americhe, ma anche, per coloro che sono rimasti, dal contado alle miniere. E in questo contesto storico, in questa situazione sociale, perciò, non può cambiare, anzi riceve maggiore impulso la drammatica vicenda dei carusi. Ma, chi sono questi carusi ?  Con il termine carusi vengono indicati i bambini e i ragazzi costretti dall’indigenza economica delle loro famiglie a lavorare nelle miniere di zolfo.  Il termine pare sia derivato dalla consuetudine di rasare completamente la testa di questi giovanissimi lavoratori, probabilmente per i motivi igienici conseguenti alle condizioni di estrema sporcizia esistenti nelle miniere: tale taglio di capelli veniva di fatto definito nel dialetto tipico dell’epoca della zona di Caltanissetta come tagghiu carusu, mentre successivamente servirà a indicare genericamente i bambini dai 5 ai 12 anni circa. Ancora oggi, segnatamente nel catanese, ma anche in altre zone della Sicilia, le parole carusu, carusazzu, identificano il “ragazzo”, il “ragazzaccio”.

C’è da dire che, anche secondo la legislazione del tempo, era illegale impiegare nel lavoro manuale un minore di 12 anni in quanto la legge stabiliva, già allora, che la scuola dovesse essere obbligatoria per i bambini fino alla terza classe elementare. Tuttavia,  questa disposizione veniva largamente disattesa a causa della miseria nella quale vivevano le famiglie contadine che costringeva tutti al lavoro nei campi fin  dalla più giovane età, come è dimostrato dal fatto che l’analfabetismo raggiungeva, particolarmente nelle campagne, percentuali altissime, assai vicine al 100%. Del resto, le autorità governative dell’epoca si preoccupavano di tutto fuorché di farla rispettare, attente com’erano a non venire in conflitto con gli interessi economici della grassa borghesia costituita dai proprietari terrieri, da cui erano lautamente foraggiate, che traeva lauti guadagni dallo sfruttamento del lavoro minorile. Per lo stesso motivo nessun controllo veniva esercitato sulle condizioni di lavoro nelle miniere che erano durissime, addirittura inaccettabili secondo gli standard odierni di sicurezza, mentre il rispetto dei diritti umani, dell’infanzia e dei lavoratori, erano pressoché inesistenti. L’orario di lavoro, infatti, poteva arrivare anche a sedici ore giornaliere, e i ragazzi subivano abitualmente maltrattamenti e punizioni corporali se accusati di mancanze di qualsiasi genere o di scarso rendimento senza che alcuno avesse il potere di intervenire in loro difesa. Ai genitori dei ragazzi arruolati come manovalanza nelle miniere veniva corrisposto un pagamento anticipato, che poteva variare da 100 a 200 lire, chiamato “soccorso morto”. In pratica si trattava di un vero e proprio prezzo di compravendita poiché la paga dei carusi era di pochi centesimi al giorno dalla quale veniva dedotto il costo del vitto fornito dal picconiere alle cui dirette dipendenze i carusi lavoravano, chiamato “spesa”, spesso costituito da alimenti di pessima qualità, o addirittura di solo pane, fornito inoltre ad un prezzo esoso.  Ai genitori dei ragazzi era quindi praticamente preclusa ogni possibilità di riscatto dei propri figli che divenivano, di fatto, proprietà esclusiva del picconiere che li aveva acquistati e che poteva disporre di loro a suo piacimento. Le condizioni di vita dei carusi hanno trovato larga eco nel passato nella letteratura siciliana. Le descrive ampiamente Giovanni Verga nel racconto “Rosso Malpelo”, e così ne parla Luigi Pirandello nella sua novella “Ciaula scopre la luna”: “Nelle dure facce quasi spente dal buio crudo delle cave sotterranee, nel corpo sfiancato dalla fatica quotidiana, nelle vesti strappate, avevano il livido squallore di quelle terre senza un filo d’erba, sforacchiate dalle zolfare, come tanti enormi formicai …. Ciàula si mosse sotto il carico enorme, che richiedeva anche uno sforzo di equilibrio. Sì, ecco, sì, poteva muoversi, almeno finché andava in piano. Ma come sollevar quel peso, quando sarebbe cominciata la salita?”Ed è ricchissimo, poi, il repertorio poetico e di canti popolari dal quale traspare la cupa rassegnazione degli zolfatari alla loro misera sorte, anche se non ancora la rabbia e la ribellione contro lo sfruttamento che sarebbero maturati solo molto più tardi, nei primi decenni del ‘900, grazie alle lotte di sindacalisti agguerriti e combattivi.  Anche in tempi moderni la tragedia di questi ragazzi è stata rievocata da Andrea Camilleri  nel suo romanzo “Il sonaglio”.  In questo racconto il reclutatore di bambini così si rivolge a un gruppo di madri in ascolto: “Mi chiamo Filibertu Alagna e vengo da un paisi ricco che si chiama Alagona. L’aviti ‘ntiso nominari? E’ un paisi ricco pirchì havi cinco minere che sunno i posti indove scavanno veni fora il surfaro…. Nelle minere travagliano, pagati bono, òmini granni, carusi e picciotteddri. L’etati dei carusi va dai se’ all’unnici anni, quella dei picciotteddri dai dudici ai diciotto. Per ogni jornata di travaglio al caruso spettano ottantacinco cintesimi, al picciotteddro ‘nveci novanta. Vi spiego come funziona la facenna. Ogni caruso o picciotteddro veni pigliato in custoddia da un picconeri, il quale ci pensa lui a darigli da mangiari, naturalmente tinennosi qualichi cintesimo dalla paga. Ma ccà veni il bello. Il picconeri, in cangio di vostro figlio, vi duna ‘na cosa che si chiama soccorso morto. Soccorso significa aiuto e morto veni a diri che voi ve lo pigliate e non doviti arrestituirglielo.  Il soccorso morto consisti in ducento liri, arripeto, ducento liri, che io vi dugno manu cu’ mano, e per conto del picconeri, al momento nel quale mi consegnate vostro figlio.  Se minni date dù, io vi dugno quattrocento liri, se minni dati tri io vi dugno seicento liri. Mi state accapennu? Questi sordi addiventano vostri e vui ne potiti fari quello che voliti e non doviti renniri cunto a nisciuno. Pinsatici bono. Un caruso sino a deci, unnici anni, che vi rappresenta ‘n famiglia? Un piso. Non travaglia ed è ‘na vucca da sfamari. Dànnolo a mia, il caruso travaglia e guadagna, non vi pisa cchiù supra alli spalli e vui v’attrovati ad aviri ‘n mano tanto dinaro che manco in sogno. Parlatene a tutte le fimmine che accanoscite e parlatene coi mariti vostri. Io sugnu alla pinsioni Pace. Portatemi i figli vostri e io ve li pago subito. V’avverto: resto ancora tri jorni. Non facitivi scappari la fortuna.”Dunque un discorso persuasivo ed estremamente convincente per chi, giornalmente, è costretto a tagliare col coltello la fame propria e quella della propria famiglia. E infatti Zina, una delle donne presenti, ne parla col marito Adelio, poverissimo pescatore la cui attività gli consente a stento di sopravvivere alla miseria più nera. Adelio esita, non vorrebbe privarsi del figlio che lo aiuta nel suo lavoro, ma la proposta è allettante e, alla fine, spinto dalla necessità, decide di chiedere consiglio al suo unico cliente, un certo Don Pitrino Vadalà. Ma come e dove nasce in Sicilia l’industria dello zolfo? Siamo nel cosiddetto altipiano dello zolfo, quello che da Caltanissetta va ad Agrigento. Se si guarda una cartina geologica della Sicilia dove i giacimenti di zolfo sono segnati a macchie rosse, si vede che le sparse tracce, partendo dai territori di Calatafimi e di Lercara Friddi e, nel catanese e nell’ennese, da Assoro a Licodia Eubea, a mano a mano si infittiscono tra Cianciana e Valguarnera, diventando un continuo lago rosso attorno ad Agrigento, da Aragona a Serradifalco. Già al tempo dei Romani abbiamo notizia che lo zolfo affiorante viene raccolto, e quello sotterraneo viene scavato, fuso, e poi solidificato in pani, come è attestato dalle lastre di terracotta col marchio di Racalmuto conservate al Museo Nazionale di Palermo, per essere poi impiegato in medicina e nel trattamento delle stoffe.  Ma quella che è la storia vera e propria dell’industria zolfifera dell’Isola, dell’estrazione sistematica dello zolfo e della sua esportazione, comincia, come abbiamo detto, nel ‘700 sotto i Borboni con la prima rivoluzione industriale e con la scoperta di un nuovo metodo di preparazione dell’acido solforico che aveva larghissimo utilizzo nell’industria tessile e in quella bellica degli esplosivi. Lo scoprono per primi, e ne intuiscono le enormi potenzialità economiche, gli imprenditori francesi e inglesi. Una compagnia francese, in particolare, avrebbe voluto creare un’industria di lavorazione sul posto costruendo una raffineria di zolfo con due camere di sublimazione a Porto Empedocle.  La stessa compagnia richiese poi il monopolio di compravendita dello zolfo siciliano, ma poiché gli inglesi minacciavano di  bombardare i porti del meridione se questa richiesta non fosse stata respinta, Ferdinando II di Borbone, nel 1836, fu costretto a revocare la concessione e a sciogliere la società. Ciò stroncò una grande occasione economica per la Sicilia a tutto vantaggio degli esportatori stranieri, principalmente francesi e inglesi, i soli, insieme a pochissimi proprietari terrieri siciliani, a essersi arricchiti con lo sfruttamento del sottosuolo dell’Isola, senza che mai i proventi di questa ricchezza del nostro territorio fossero reinvestiti in Sicilia. Lo zolfo siciliano, di ottima qualità, imbarcato su velieri, veniva inviato a Marsiglia per essere poi lavorato all’estero per i mercati francese e britannico.  Ancora una volta la Sicilia venne trattata come una colonia da sfruttare  e dovette soccombere alla prepotenza dello straniero. Già sul finire di quel secolo attivissime erano le miniere di Palma di Montechiaro, Petralia Sottana, Racalmuto, Riesi, San Cataldo, Caltanisseta, Favara, Agrigento, Comitini, Licodia Eubea. Nel 1890 ne sarebbero state in esercizio ben 480 e nei primi anni del ‘900 le miniere attive sarebbero diventate 886 con circa 40.000 occupati. La febbre dello zolfo prende tutti: proprietari terrieri, gabelloti, picconieri, commercianti, magazzinieri, carrettieri, artigiani, carusi. Coinvolge imprenditori stranieri e speculatori di ogni nazionalità. Attira masse di uomini dai popolosi paesi dell’interno dell’Isola, dai miseri centri del feudo, in questa sterminata landa dove, da secoli, le possibilità di lavoro dipendono dal capriccio del gabelloto e dei suoi sottostanti, dalla soggezione a costoro; dove le giornate lavorative si riducono a poche nell’arco dell’anno; dove il contadino è angariato da tasse, decime e balzelli di ogni tipo a cui bisogna aggiungere le tangenti illegali; dove le squadre di lavoratori stagionali, mietitori e spigolatori, sono costrette al nomadismo; dove la vita, insomma, raggiunge inimmaginabili livelli di sfruttamento e di miseria. La miniera, dunque, appare come un miraggio nel deserto e offre una speranza di riscatto a una moltitudine di miserabili diseredati. E’ una febbre che cresce col tempo e si sviluppa nell’arco di due secoli fino al ‘900, quando, per la concorrenza sui mercati internazionali dello zolfo americano, decresce fino a sparire del tutto negli anni ’60, lasciando tutto come prima, peggio di prima, com’è destino di questa terra infelice, come avverrà – poiché la Storia si ripete  – negli anni ’90 con l’industria petrolifera e petrolchimica, com’è successo nel primo decennio del 2000 con l’industria automobilistica a Termini Imerese. Nel 1934 una legge dello Stato italiano vietò alle donne e ai ragazzi di età inferiore ai 16 anni di calarsi all’interno delle zolfare mentre già da qualche anno prima, nel 1927, era stata sancita per legge la demanialità del sottosuolo. Solo lo Stato poteva assegnare in concessione, perpetua o temporanea, lo sfruttamento dei giacimenti. Negli anni successivi alla seconda guerra mondiale, malgrado gli interventi governativi prima e regionali dopo, malgrado la nascita nel 1963 dell’Ente Minerario Siciliano, l’ E.M.S., continuò il declino dell’attività estrattiva dello zolfo e, a una a una, le miniere chiusero irreversibilmente. E un destino ancora peggiore è toccato alle miniere di sali potassici di Pasquasia, dapprima abbandonate e successivamente trasformate in un deposito di migliaia di tonnellate di amianto e, pare, di scorie nucleari. Ma, in ogni caso, al di là della concorrenza americana, l’industria mineraria siciliana non poteva avere prospettive di sopravvivenza a causa della carenza di capitali da investire nella modernizzazione degli impianti di estrazione, delle infrastrutture, strade e ferrovie, per l’insufficienza dei porti, per la mancanza di spirito imprenditoriale, per la pochezza dell’industria chimica isolana. Quella della zolfara è stata, dunque, una storia triste di miseria, di sfruttamento indiscriminato, di sofferenze indicibili, di morte, di abbrutimento, di negazione della dignità umana.  Sull’altipiano sono rimasti l’amaro della delusione e della sconfitta, un mare di detriti, cumuli immensi di scorie, un vasto cimitero di caverne risonanti, di miniere morte, di tralicci arrugginiti, di binari contorti dei carrelli. Qui sono tornati a ricrescere i cespugli spinosi del deserto, sono tornate a strisciare le serpi, a volteggiare i corvi. Purtroppo la Storia, quella con la “S” maiuscola, non è mai servita a insegnare qualcosa agli uomini: solo oggi, forse, si comincia a comprendere che la vocazione di questa nostra terra, ricchissima di storia, di reperti archeologici unici al mondo, di splendide spiagge, di isole e arcipelaghi meravigliosi, di bellezze naturali e  architettoniche senza pari, non può essere quella industriale, ma che il suo futuro risiede soltanto nello sviluppo di un’agricoltura razionale, moderna e meccanizzata, e, soprattutto, di un turismo di qualità. Si pensi, solo per un momento e per fare un esempio che è sotto i nostri occhi, che cosa avrebbe potuto costituire dal punto di vista turistico, e quale grandiosa occasione di sviluppo occupazionale avrebbe potuto rappresentare la valorizzazione della fascia costiera che, dalle foci del Mulinello e del Marcellino, dall’Hangar dirigibili di Augusta, passando per le rovine di Mègara Hyblaea giunge a Thapsos nella penisola Magnisi, al seno di Priolo e oltre: al suo confronto la tanto celebrata costiera adriatica farebbe la figura della parente povera. Porticcioli turistici, alberghi, ritrovi, night, luoghi di ristoro e di sport acquatici, pescaturismo, spiagge tropicali, un mare cristallino, tutto nell’ambito protetto della rada: un sogno, a fronte del quale rimane un deserto di rottami industriali arrugginiti, una terra avvelenata dai rifiuti tossici, un mare inquinato da veleni di ogni tipo, una costa deturpata per secoli, forse per sempre. E il cancro. Ma vediamo com’era organizzata, in quei due secoli passati, l’attività della miniera. In superficie, rintanati nei loro palazzi di Palermo, di Agrigento e di Catania, i proprietari dei terreni che, per legge, erano anche proprietari del sottosuolo, non ancora considerato proprietà demaniale, i quali, senza alcun rischio né preoccupazione, ricevevano dal gabelloto, cioè dal concessionario, l’estaglio, cioè una quota del profitto, che poteva raggiungere il 30% derivante dalla vendita del prodotto.  C’era poi una vasta categoria parassitaria che traeva profitto dal lavoro della miniera, costituita dagli sborsanti, cioè dai finanziatori, dai gabelloti, dai magazzinieri, dagli esportatori.  E poi i carrettieri, i fabbri, i bottegai, cioè coloro che oggi, insomma, chiameremmo l’indotto. Alla lavorazione dello zolfo estratto erano addetti i calcaronai, incaricati della preparazione dei calcaroni, cioè delle fornaci, gli arditori, preposti alla fusione dello zolfo, i vagonai  che spingevano i carrelli carichi sui binari, dall’imboccatura della miniera fino ai calcaroni.  E tutto questo apparato poggiava principalmente sulle spalle di due soli lavoratori: il picconiere  e il caruso.  L’uno, che a colpi di piccone estraeva lo zolfo dalle viscere della terra; l’altro, che sulle sue spalle lo trasportava in superficie, a due o trecento e più metri d’altezza, arrampicandosi su gradini scavati nella roccia con pendenze ripidissime, servendosi di ceste contenenti fino a 35 chili di zolfo i più piccoli e fino a 80 chili i ragazzi più grandi.  Ogni picconiere impiegava in media da due a quattro carusi. Nella galleria la temperatura arriva a 50° c. Manca l’aria. Completamente nudi, grondando sudore e contratti sotto i gravosissimi pesi che portavano, una volta usciti all’aria aperta, spesso gelida, i carusi scaricavano il materiale nei carrelli che altri ragazzi spingevano fino alla bocca dei calcaroni, sempre correndo, incitati, spintonati, spesso frustati e bastonati come bestie con bastoni e tubi di gomma, in condizioni incredibili di crudele sfruttamento. Impossibile allontanarsi dal lavoro anche per pochi minuti, nemmeno per urgenti bisogni corporali. Se proprio non se ne poteva fare a meno, si doveva riportare la caldarella  piena, a dimostrazione dell’avvenuto bisogno e mostrarla ai sorveglianti. Dai verbali dei processi degli anni ’50 contro lo sfruttamento minorile, segnatamente di quello celebrato a Lercara in cui era imputato un certo Ferrara, proprietario di miniere della zona, emerge un quadro terrificante di abusi e di violenze, un vero girone dantesco di dannati. Naturalmente in questo processo tutti gli imputati si proclamarono innocenti attribuendo le accuse di malversazioni e di comportamenti illegali alle calunnie dei sindacalisti comunisti o a speculazioni politiche: inutile difesa, smentita dalle dettagliate testimonianze dei carusi e da ben 65 perizie mediche ordinate dal Tribunale a un collegio di medici palermitani. Testimonianze agghiaccianti, come quella di Beniamino Minutella di 14 anni al Giudice Istruttore: “Ero addetto a scavare col piccone il piano dei fossati per abbassarne il livello al fine di procurare la fuoriuscita dell’acqua. Per eseguire tale lavoro ero costretto a stare con l’acqua che mi arrivava ai ginocchi, Il lavoro iniziava alle 16 e terminava alle 4 di notte. A causa dell’umidità e della polvere che si respira gli occhi si infiammano e bruciano al punto che si è  costretti ad andare all’aperto. Succede spesso che il Ferrara alle nostre rimostranze perché non ci fornisce gli stivali, ci risponda: state lì a crepare nell’acqua fino a farvi schiattare il cuore”. E questa la deposizione di Antonino Marsala di soli 11 anni: “Confermo le dichiarazioni rese al Pretore, Lavoravo 12 ore al giorno, dalle 6 alle 18. Fui sottoposto a bastonature dai sorveglianti perché non tenevo il ritmo che si voleva. In qualità di caruso ero addetto al trasporto di caldarelle di  zolfo del peso di 35 chili. Preciso che una volta, mentre mi trovavo in miniera,  Giuseppe Modica mi diede una pedata e mi ferì all’occhio sinistro producendomi una lesione di cui ancora porto la cicatrice. Non mi fece medicare e mi limitai a fasciare l’occhio con un fazzoletto e dovetti continuare a lavorare …” E di deposizioni come queste, più o meno tutte dello stesso tenore, ce ne sono 65 agli atti del processo. Ma quella che mi sembra, più di ogni altra, commovente ed emotivamente significativa è la seguente descrizione anonima del lavoro in miniera nella quale mi sono imbattuto nel corso delle mie ricerche su questo affascinante argomento storico: “L’ascensore inizia a scendere dopo un piccolo sobbalzo. Il rumore della ferraglia è assordante. Man mano il cielo sopra di loro sparisce. I loro volti sono rassegnati, accostati uno all’altro come bestie in quell’ascensore della miniera, che li ingoia come un verme senza fondo. L’ultimo sguardo a quel cielo .Chissà se lo rivedranno. Stretto al petto tengono quel misero involto di pane e olive. I carusi, bambini dagli 8 ai 12 anni, ben presto hanno lasciato i loro giochi. E non sono le ginocchia ad essere sbucciate, giocando a pallone, ma le mani spaccate dal lavoro. Visi smunti, impauriti, mentre scendono insieme ai grandi in quel buco nero. Il caldo aumenta man mano che si scende e l’aria è poca portata dagli sfiatatoi che scorrono lungo le gallerie. Nudi scavano nelle gallerie carusi e adulti. Vecchi e giovani sudati e impastati di quello zolfo strappato alla roccia. Muli insieme ai muli, ormai ciechi, che servono a tirare i carrelli col materiale al montacarichi. Chissà che colore ha il cielo oggi. Chissà cosa pensano i carusi mentre respirano a fatica in quella bolgia di polvere e buio. Inferno sulla terra. Morti prima di nascere. E quanti, stretti ai loro compagni, sono morti rimanendo sepolti da gallerie crollate o da quel maledetto gas. Trabonella, Gessolungo …. miniere una volta, ora cimiteri, dove nessuno ha portato mai fiori, dove le urla strazianti delle madri si sono perse ingoiate dal tempo. Figli di questa terra, morti nel suo ventre, vi ricordo ogni volta che vedo quelle torri che ormai cedono arrugginite. Non una tomba su di voi, né terra benedetta. Le conseguenze fisiche per i carusi utilizzati nelle miniere furono terribili e tali da segnarli per tutta la vita: cecità, rachitismo, deformazioni scheletriche, malattie irreversibili dell’apparato respiratorio dovute alla polvere, allo zolfo, e ai continui sbalzi di temperatura tra il caldo asfissiante della miniera e l’aria gelida esterna. Moltissimi i morti in giovanissima età, e, tutti quelli che sopravvissero, quasi tutti ingobbiti, dichiarati inabili al servizio militare. Innumerevoli gli incidenti e le vittime per le esplosioni di “grisou”, il gas micidiale e inodore la cui presenza nelle gallerie poteva essere rivelata solo dai cardellini che i minatori portavano con sé in piccole gabbie affinché, con la loro morte improvvisa, segnalassero il pericolo imminente. Ciò, tuttavia, spesso avveniva troppo tardi  perché gli uomini intrappolati nei bassi e tortuosi cunicoli potessero salvarsi fuggendo in tempo all’aperto. Una lapide posta nei pressi  di una miniera a cura dell’ Associazione “Amici della Miniera” di Caltanissetta riporta la seguente iscrizione: “Nella Valle delle Zolfare quel mattino pioveva. Correva l’anno 1881, erano le 6 del 12 novembre. 120 minatori che lavoravano nella miniera Gessolungo sezione “Calafato” di contrada Juncio, si accingevano a raggiungere i propri cantieri in sotterraneo percorrendo la galleria “Piana”, quando improvvisamente furono investiti da un violento incendio causato dallo scoppio di “grisou”prodotto dalla fiamma di una lampada ad acetilene.55 minatori, anche se feriti, riuscirono a raggiungere l’esterno e mettersi in salvo. Per gli altri 65 fu la fine. 16 di loro feriti gravemente morirono in ospedale. Gli altri 49 recuperati dopo venti giorni sono stati sepolti in questo luogo. Tra loro ci sono 19 “carusi” di età da 8 a 14 anni. Nove sono rimasti ignoti. Viandante, ricordali per le loro sofferenze, il sacrificio e la vita violentemente spezzata ed eleva una preghiera a Dio.Novembre 2001” In un altro incidente in miniera in una sola volta morirono 150 carusi  e, sulla stele che li ricorda, 28 sono senza nome. Queste storie, questo mondo scomparso, quest’illusione che non migliorò la condizione della gente di Sicilia rivivono oggi grazie all’istituzione della Riserva posta fra Aidone, Piazza Armerina e Valguarnera, nell’ennese. Negli anni ’80, ad attività estrattiva conclusa, nacque l’esigenza di non disperdere quel patrimonio ma, anzi, di utilizzarlo come leva per lo sviluppo locale, offrendo ai turisti la possibilità di visitare quello che è considerato il parco di archeologia industriale più grande ed interessante del mondo, un vero e proprio museo all’aria aperta. Nei tre siti estrattivi di  Fioristella, Grottacalda e Gallizzi, 400 ettari immersi nei boschi tornano a colonizzare quell’area un tempo resa sterile dall’anidride solforosa liberata dalla combustione dello zolfo: natura e miniera oggi riescono a convivere dopo essere stati, per oltre due secoli, tra loro incompatibili. Infine, e per concludere, mi sia consentita un’annotazione personale e inedita a margine di queste mie ricerche. Contrariamente a quanto potrebbe far pensare l’allegro “trallalleru” del ritornello e il motivo accattivante, “Vitti ‘na crozza”, elaborata dal maestro agrigentino Francesco Li Causi, e resa famosa da Rossana Fratello nella colonna sonora del film di Pietro Germi “Il cammino della speranza”, è una canzone triste e, amio avviso, è zolfatara. Protagonista del canto è una crozza, un teschio, che racconta il suo dolore per non aver avuto, nel giorno della morte, nemmeno un rintocco di campana. Un’usanza, quest’ultima, imposta dalla Chiesa del tempo che vietava i rintocchi a morto per chi spirava tra le viscere della terra.  La morte in galleria era vista, dunque, come una punizione divina per i peccati commessi. Colui che moriva in miniera non aveva nemmeno diritto al funerale ecclesiastico e veniva portato direttamente al cimitero. Il cannuni su cui appoggia il teschio non è, perciò, la canna della temibile arma – cosa che non avrebbe significato –  ma, nel gergo solfataro, la vucca, cioè il boccaporto, l’ingresso della miniera, dove la crozza invoca disperatamente la pace dell’anima, irraggiungibile finché una mano pietosa non ne avrà ricomposto i resti. Questa è, lo so bene, solo una delle tante versioni e dei tanti significati che sono stati attribuiti nel tempo a questa famosissima canzone siciliana, la cui origine pare risalire all’800, e di cui esistono testi e interpretazioni tanto diversi tra loro.  A me, però, da profano, è sembrata, non solo la più suggestiva, ma anche la più realistica, così come mi è sembrato doveroso, se la mia opinione è quella giusta, sottrarre questo meraviglioso canto all’equivoco che da lungo tempo l’ha avvolto e che, in ogni caso, ne ha fatto uno dei più noti motivi della nostra tradizione, a riprova di quanto la vicenda dello zolfo e dei carusi abbia inciso sulla letteratura, arte, costume e folklore della Sicilia, e segnato la vita della nostra gente. La chiusura delle miniere di zolfo, di salgemma e di sali potassici in Sicilia pose fine, come abbiamo visto, alla tragedia dei carusi, ma non a quella dei minatori siciliani. L’8 agosto 1956, infatti, si consumava in Belgio una delle catastrofi minerarie più tragiche della storia dell’Europa occidentale. Nella miniera di Marcinelle perirono 262 minatori, 136 dei quali, più della metà quindi, erano siciliani. Si trattava di poveri sventurati che avevano trovato il modo di continuare a corrodersi i polmoni nelle miniere di carbone belghe. Dieci anni prima, il 23 giugno 1946 il governo italiano aveva stipulato e sottoscritto con quello belga un accordo criminale e scellerato in forza del quale l’Italia avrebbe acquistato carbone dal Belgio a prezzo agevolato in cambio dell’invio di 50.000 minatori che, per un certo numero di anni, non avrebbero dovuto né potuto cambiare lavoro, pena l’arresto. In pratica, carne umana in cambio di energia. I minatori siciliani lasciarono la loro terra con tanti dubbi e tre sole certezze: la prima, che la guerra per loro non era finita; la seconda, che prima o poi si sarebbero ammalati di silicosi; la terza, che molti di loro non sarebbero più tornati a casa. Quella che segue è la testimonianza di uno di loro, siciliano di Augusta, Salvatore Agrillo, resa in un suo scritto inedito dal titolo “Storia di un minatore siciliano” che ho avuto la ventura di poter leggere: “Vengo dal mare, dalla terra dei vulcani,da una terra secca e calcarea. Ero giovane e vigoroso. Avendo sentito parlare di lavoro all’estero, mi ci sono interessato. Mi decisi di andare a vedere questi paesi lontani dei quali sognavo. Presi la decisione di partire per il Belgio e le sue miniere. Con le carte in regola, annunciai la mia decisione ai miei genitori. Si opposero ma alla fine accettarono la mia decisione. Ho rassicurato tutti, i miei genitori, i miei fratelli e le mie sorelle. Dicevo loro che avrei fatto fortuna e che li avrei aiutati a vivere meglio perché la vita era molto dura a quell’epoca, nel dopoguerra. Presi il treno ad Augusta, la mia città natale, in uno degli ultimi convogli di lavoratori emigranti del 1946. Partii per il Belgio. Il convoglio attraversava lentamente l’Italia. Dopo alcuni giorni di viaggio e numerose peripezie il treno arrivò a destinazione, cioè Boussu. In quel posto, all’inizio rimasi deluso, tutto era nero; io che venivo dal paese del sole e dell’acqua colore azzurro. Ma mi rassegnai. Ero venuto lì per lavorare. Poi mi installai con i miei futuri colleghi di lavoro in piccole casette. Incominciai a lavorare alla “Sentinelle” e poi all’ “Alliance” e alcuni anni più tardi a “Vedette de Saint-Antoine”. Nel frattempo ci fu un reclutamento per comporre una squadra di salvataggio e ne presi parte con fierezza. Continuavo a seguire i corsi di salvataggio e sopravvivenza e a lavorare. Lavorai per 17 anni nel profondo delle miniere. Qualche volta mi ferivo ma non gravemente. Però alcuni miei compagni persero la vita lì sotto. Nel ’59, alla “Sentinelle”, durante un’avanzata nel taglio della pietra, una falda di acqua sotterranea fu bucata e inondò parecchie gallerie che erano destinate a mettere dei cavalli condannati a lavorare nel fondo. Per un mese, curai, feci mangiare e pulii un cavallo. Ogni giorno mi occupavo di lui e un legame si era instaurato tra lui e me. Riconosceva i miei passi e il mio fischio. Era contento di vedermi ogni volta. Più avanti si è potuto far risalire il cavallo ed egli fu chiamato “Noè” perché era stato salvato dalle acque. Per questo atto ricevetti una medaglia d’argento contro la crudeltà verso gli animali. Alcuni salvataggi hanno avuto meno successo. Un esempio fra gli altri fu “Marcasse”. Una perdita di grisou. Nessuno si salvò. Poi venne la catastrofe, la più terribile che il paese abbia conosciuto: “Le Bois du Casier à Marcinelles”.  Arrivata in autunno, la mia squadra del “grand trait de Frameries” lavorò un mese intero al salvataggio di questi uomini bloccati nel fondo della miniera. Sfortunatamente il numero delle vittime fu pesante. Più di 250 persero la vita. Numerose scene erano spaventevoli da vedere e ci sono voluti forza e coraggio per rimontare in superficie tutti quei corpi senza vita e renderli alle loro famiglie, le quali aspettavano questi uomini vivi con tanta speranza. Alla fine di questo terribile salvataggio, la squadra ricevette una delle più alte distinzioni per questo atto umanitario: il “Carnegie Hero Fund”. Dal Governo italiano ricevetti l’ “Ordine della Stella della Solidarietà”. La mia squadra e io ricevemmo dalle mani del Re Baudoin le congratulazioni, gli onori ed i ringraziamenti delle famiglie dei minatori defunti. E infine abbiamo ricevuto per quell’atto umanitario una Medaglia d’oro dal Governo belga. Sì, ho veramente amato  il mio mestiere di minatore di fondo e ne sono molto fiero. A tutti i miei colleghi vivi, quando verranno lì dove sono io ora, parleremo di nuovo tra di noi, di storie vissute a Bouviaux, di carbone e di grisou. Ecco la storia di un minatore di fondo chiamato Agrillo Salvatore.”Una storia semplice e genuina, come l’uomo che l’ha narrata, e che non ha bisogno di alcun commento.

   Ugo Passanisi   

I “carusi” nelle solfatare della Sicilia ovvero quando i bambini siciliani venivano venduti o “affittati” per lavorare nudi nelle miniere di zolfo anche 16 ore al giornoultima modifica: 2015-05-12T09:38:19+02:00da leodar1
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