PUBBLICA AMMINISTRAZIONE, IL PRINCIPIO DI TRASPARENZA, PARITÀ DEI SESSI , PERCORSI GIUDIZIALI – di Cecilia Càsole

R928540855_nIl principio di trasparenza è anzitutto contenuto nell’articolo del 1 della legge 7 agosto del 1990 sul procedimento amministrativo [1]  : legge sottoposta a modifiche in seguito alla legge n.15 del 2005 recante “ Modifiche e integrazioni alla legge 7 agosto del 1990, num. 241, concernenti norme generali sull’azione amministrativa”. I differenti istituti della trasparenza amministrativa sono, altresì, disciplinati dalle leggi statali o regionali a seconda che rientrino o no nelle materie indicate nell’articolo 117 comma 2 e 6, rispettivamente inerenti all’ “ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali” , e “alle fonti regolamentari degli enti pubblici territoriali”. Il principio che ci proponiamo di esaminare è stato oggetto di lunghi dibattiti incentrati sull’ individuazione della connotazione attribuibile a esso. Introdotto nell’art. 1 della L.241/ ’90 con la riforma del 2005, è stato un principio che sin da subito  è stato privo  di una chiara formulazione di norme di settore, tanto da essere stato definito un principio “ Bon a tout faire” ( Manganaro). Nei dibattiti giurisprudenziali gli interrogativi mirarono a chiarire se si trattasse di un principio che tendesse semplicemente a perfezionare il principio di pubblicità o potesse essere considerato dotato di una sua autonomia applicativa .

È prassi consolidata l’accostamento del  principio di trasparenza con il principio di pubblicità, ed è altrettanto scontato il collegamento tra questi due principi con il principio di imparzialità enunciato dall’art. 97 della Cost. “I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione” , del quale abbiamo avuto modo di chiarirne il significato. Ai principi trasparenza e pubblicità in senso ampio, vengono ricompresi una serie di diritti, fra i quali: diritto di accesso ai documenti amministrativi,  l’istituzione degli uffici di relazione con il pubblico,  principio della concorsualità per l’accesso al pubblico impiego, la disciplina sul responsabile del procedimento,  l’obbligo di comunicazione dell’avvio del procedimento, e così via.  Tuttavia,  esiste un criterio che permetta una distinzione tra i due principi ai fini analitici e applicativi? La distinzione più accettata in dottrina è quella secondo cui la trasparenza esprimerebbe la necessità che le amministrazioni pubbliche attuino meccanismi decisionali idonei a garantire la massima comprensibilità ed evidenza pubblica,  la trasparenza attiene al dovere di correttezza che incombe sull’amministrazione mentre la pubblicità consisterebbe nel mero rispetto delle regole procedimentali e organizzative di quelle sugli atti e provvedimenti volte a garantirne la conoscibilità. Con un parametro ulteriore è stata operata una suddivisione tra trasparenza e pubblicità  in un rapporto tra genere e specie. Al genere apparterebbe la trasparenza in quanto costitutiva del dovere di pubblicazione degli atti amministrativi,  il dovere delle amministrazioni di attivare i procedimenti e concluderli entro un termine prestabilito, diritto di accesso, i criteri di valutazione dei funzionari pubblici ecc. La pubblicità invece costituirebbe una “specie” della trasparenza, nel senso di “misure di conoscenza” disciplinate dalla legge e che le amministrazioni devono applicare e predisporre in relazione a determinati fatti e atti che ne caratterizzano la loro azione. Cercando di rispondere al quesito iniziale, è possibile affermare che trasparenza e pubblicità non sono principi in perfetta fusione. Vi sono strumenti ( gazzette, bollettini, albi, siti internet, casellari) che rendono conoscibile l’azione amministrativa da tutti i cittadini, e vi sono altri istituti, come l’accesso ai documenti amministrativi, la comunicazione dell’avvio del procedimento, la motivazione del provvedimento che riguardano alcuni soggetti determinati, che hanno appunto diritto di prenderne visione. Nel primo caso ci troviamo di fronte all’ esplicazione del principio di pubblicità che di trasparenza,  nel secondo caso riscontriamo un criterio di trasparenza pubblicità. È indubbio, dunque, che trasparenza e pubblicità siano criteri molto vicini ma non per questo uguali. La pubblicità è connotata da una “ relazionalità generica e mediata, meramente potenziale e notiziale, diretta ad una pluralità indeterminata di soggetti. Le forme che a essa si riconnettono sono solitamente rigide e funzionali alla produzione di determinati effetti giuridici a prescindere dalla volontà e dalla condizione dei soggetti che abbiano conoscenza” . La trasparenza, invece, potrebbe essere caratterizzata da una  “relazionalità immediata funzionale ed effettiva che non richiede forme particolari, essendo caratteristico il dato della instaurazione del rapporto intersoggettivo diretto” . Le distinzioni riportate, permettono di azzardare la conclusione, secondo cui il principio di pubblicità rispecchia l’ideale comune di come dovrebbe essere un’amministrazione e di come dovrebbe realizzarsi la sua azione, cioè una “ casa di vetro” (M. Renna- F. Saitta), scrutabile e conoscibile da tutti i cittadini, laddove la trasparenza riflette un modalità di pubblicità in senso stretto, in quanto presuppone un principio di conoscibilità solo in capo a determinati soggetti preventivamente determinati dalla legge. Il rispetto verso il principio di trasparenza confligge con le esigenze di efficienza delle pubbliche amministrazioni, le quali comportano, in determinate situazioni, celeri decisioni amministrative così, come la conoscibilità delle decisioni amministrative può contrastare con il diritto del “segreto d’ufficio”. La circostanza secondo cui il criterio di trasparenza e pubblicità possa ostacolare l’ esplicazioni di altri principi richiama la difficoltà di far combaciare buon andamento e imparzialità. Il rispetto del principio di imparzialità, può comportare il sacrificio delle prontezza dell’azione amministrativa. Molto delicato è, difatti, il problema del rapporto pubblicità/trasparenza e tutela della riservatezza ( per riservatezza si indica quel complesso di dati, notizie e fatti, che riguardano la sfera privata di una persona) che emerge quando viene vantato il diritto di accesso ai documenti amministrativi, disciplinato quest’ultimo dall’ 22 della L. 241/’90, il quale al secondo comma dell’art. recita espressamente: “ L’accesso ai documenti amministrativi, attese le sue rilevanti finalità di pubblico interesse, costituisce principio generale dell’attività amministrativa al fine di favorire la partecipazione e assicurarne l’imparzialità e la trasparenza. L’art. 10 della L. 241/’90 prevede il diritto di partecipazione per i soggetti legittimati i quali possono “ presentare memorie scritte e documenti”, nonché “prendere visione degli atti del procedimento”.La partecipazione può espletarsi sia nel procedimento in corso (accesso endoprocedimentale) sia a procedimento concluso (accesso esoprocedimentale). I soggetti legittimati a esercitare un diritto di accesso sono tutti quelli che hanno titolo a partecipare al procedimento, quindi non solo coloro che hanno interessi legittimi,  ma anche quelli che hanno meri interessi procedimentale. In tutti gli altri casi, l’art. 22 L. 241/’90 stabilisce chi sono i soggetti legittimati, prevedendo che questi possano essere sia titolari d’ interessi legittimi, sia di diritti soggettivi,  ma anche soggetti che, pur non avendo questi titoli,  hanno un’autonoma pretesa all’informazione circa l’attività amministrativa. Naturalmente, l’istanza di accesso deve rispettare determinati requisiti previsti dalla legge. Quindi, dovrà essere motivata, indicare gli estremi del documento, l’identità del richiedente e così via. In tema di diritto di accesso,  alcune problematiche rilevanti sorgono quando questo può ledere la posizione di terzi che possono essere c.d. interessati (cioè soggetti privati che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente a una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso) e i c.d. contro interessati ( soggetti, individuati o facilmente individuabili in base alla natura del documento richiesto, che dall’esercizio dell’accesso vedrebbero compromesso il loro diritto alla riservatezza). Il diritto alla riservatezza è disciplinato dall’art. 59 del d.lgs. 196 del 2006 del codice della privacy il quale fa rinvio ai principi e alle regole contenute nella 241 del ’90, che , in sostanza,  richiede all’amministrazione di effettuare una ponderazione tra interessi contrapposti, e dispone, altresì , che deve essere comunque garantito ai richiedenti l’accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia “ necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici, spettando all’amministrazione la relativa valutazione. Per i documenti contenenti dati sensibili ( idonei a rivelare l’origine etnica, convinzioni religiose … ) e giudiziari ( indagato o imputato), l’accesso è consentito sono nei limiti rigorosamente indispensabili. La tutela giurisdizionale è affidata al giudice amministrativo  nei casi di determinazioni concernenti il diritto di accesso nei casi di rifiuto, espresso o tacito, o di differimento. Secondo quanto stabilito dal codice della privacy, il diritto di accesso che mira a ottenere la comunicazione in forma intellegibile dei propri dati personali è affidato al Garante del trattamento dei dati personali o al giudice ordinario; quest’ultimo ha pieni poteri di cognizione e di condanna. Aver dedicato una piccola parte di questa ricerca al principio di trasparenza e pubblicità ha avuto l’obiettivo di evidenziare come i principi che sorreggono l’intera attività delle pubbliche amministrazioni non possano essere considerati nella loro singolarità. Essi s’intersecano l’un l’altro per raggiungere una serie di finalità, in primis l’interesse pubblico. La parità dei sessi è uno fra i tanti interessi della collettività, è una delle questioni che pone al cento  il principio di imparzialità, principio che, a sua volta, non può essere compreso prescindendo dalla conoscenza del principio di trasparenza.

Caducazione del provvedimento

Tornando alla questione della responsabilità e del risarcimento del danno in capo all’amministrazione in seguito a un’azione discriminatoria è prevista la caducazione del provvedimento, ma se è vero che in tal modo restaura la posizione giuridica del ricorrente non sempre soddisfa il suo interesse sostanziale, per  esempio la declatoria di nullità dei provvedimenti discriminatori non è sufficiente a dare al lavoratore il bene della vita cui ambisce;. In questo caso l’amministrazione dovrà ancora, a seconda dei casi ammettere il candidato escluso,  rifare da capo il bando di concorso e così via. A tale scopo il tribunale amministrativo regionale dovrà emettere insieme all’azione di annullamento del provvedimento anche il risarcimento del danno e la reintegrazione in forma specifica tranne che non si tratta di una riserva di amministrazione [2], in cui il giudice ha il solo potere di condannare a riedire la procedura concorsuale oppure riammettere alle prove il candidato escluso per ragioni discriminatorie. Quando non sia possibile adottare il provvedimento che non è stato adottato o che lo è stato ma illegittimamente ( come nel caso in cui il provvedimento sia stato adottato ma in ritardo) il giudice potrà solo disporre il risarcimento del danno con l’equivalente monetario.

Percorsi giudiziali

Il problema delle tutele nei confronti di chi subisce un comportamento discriminatorio sia di natura individuale sia di natura collettiva, riguarda l’individuazione del giudice competente a dirimere la controversia. La legislazione contiene quattro percorsi giudiziali per l’attuazione delle tutele sostanziali contro le discriminazioni di genere: a cognizione piena per la repressione delle discriminazioni individuali, a cognizione sommaria per la repressione delle discriminazioni individuali, a cognizione piena per la repressione delle discriminazioni collettive, a cognizione sommaria per la repressione delle discriminazioni collettive. Il processo a cognizione piena è sostanzialmente il processo ordinario cioè quello che segue il rito normale, coperto da tutte le garanzie e le procedure idonee alla tutela degli interessi delle parti contrapposte. Nel processo a cognizione piena le parti hanno tutte le garanzie necessarie affinché il giudice consideri le proprie ragioni, mentre nel processo a cognizione sommaria è sufficiente che una sola delle parti dimostri il fumus boni iuris o il periculum in mora  per ottenere, per esempio, un provvedimento cautelare che conserverà la sua efficacia fin quando la controparte non si opponga. Per quanto concerne la repressione delle discriminazioni individuali nel procedimento a cognizione piena, tutte le disposizioni indicano il giudice ordinario del lavoro quale organo competente a giudicare sulle controversie in seno alle quali sia dedotta una violazione del diritto antidiscriminatorio. Il giudice amministrativo conserva un ambito residuale di competenza in relazione alle discriminazioni incidenti sui rapporti di lavoro esclusi dall’ambito della contrattualizzazione del pubblico impiego e a quelle incidenti in fase di concorso per l’accesso dall’esterno ai pubblici impieghi e per la progressione in carriera. Le regole del procedimento sommario per la repressione delle discriminazioni individuali sono contenute nell’articolo 38 d.lgs.198/2006. Come nel procedimento a cognizione piena, la legittimazione ad agire appartiene al soggetto discriminato, il quale può delegare il consigliere o la consigliera provinciale o regionale di parità. L’articolo in esame dispone che anche  nel processo a cognizione sommaria il giudice competente è il giudice del lavoro, più precisamente “ il giudice del lavoro del luogo ove è avvenuto il comportamento denunziato”. Qualora il giudice accerti la sussistenza di una discriminazione, ordina al suo autore la cessazione del comportamento illegittimo (tutela inibitoria) e la rimozione degli effetti (tutela ripristinatoria). Le azioni per la repressione delle discriminazioni collettive nel procedimento a cognizione piena sono esperibili dal consigliere o dalla consigliera di parità regionale o nazionale, giudice competente è il giudice del lavoro del luogo ove è avvenuto il comportamento denunziato”. L’azione può essere esercitata anche in via di intervento nel processo iniziato dal singolo, se la discriminazione che questo denuncia ha anche una rilevanza collettiva. Le stesse regole valgono per il procedimento sommario per le repressioni  delle discriminazioni individuali;  ciò che differisce è la legittimazione ad agire che qui è attribuita in via esclusiva al consigliere o alla consigliera regionale o nazionale di parità e peculiari sono i poteri del giudice per quanto attiene alla rimozione degli effetti dell’illecito, che, in ragione della particolarità del fatto represso, sono estesi all’emanazione dell’ordine di definizione di un piano di rimozione della discriminazione accertata. La legge prevede, altresì, procedure di conciliazione stragiudiziali. Per le discriminazioni di carattere individuali sono previste ipotesi di conciliazione in sede amministrativa anche tramite il consigliere o la consigliera provinciale o regionale competente. Questa forma di conciliazione permette al lavoratore/trice di ricevere un’assistenza qualificata anche in fase pregiudiziale per iniziare una vertenza e facilitarne il percorso risolutivo. Quando, invece, i consiglieri di parità regionali e nazionali riscontrino l’esistenza di questo tipo di discriminazione, possono chiedere all’autore delle discriminazioni di predisporre, entro un termine di 120 giorni, un piano di rimozione delle medesime previa consultazione con le RSA ( Rappresentanza Sindacale Aziendale). Dopo di che passa al vaglio del consigliere o della consigliera di parità, che se esprime il suo consenso può determinare l’avvio delle ordinarie procedure di conciliazione.


[1]Art. 1 L. 241/’90 “ L’attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge ed è retta da criteri di economicità, di efficacia, di pubblicità e trasparenza, secondo le modalità previste dalla presente legge e dalle altre disposizioni che disciplinano procedimenti, nonché dai principi dell’ordinamento comunitario”.

[2]La reintegrazione in forma specifica è esclusa nel caso in cui sussista la c.d. riserva di amministrazione che impedisce al giudice di sostituirsi alle decisioni discrezionali spettanti alla pubblica amministrazione.

 

PUBBLICA AMMINISTRAZIONE, IL PRINCIPIO DI TRASPARENZA, PARITÀ DEI SESSI , PERCORSI GIUDIZIALI – di Cecilia Càsoleultima modifica: 2015-04-15T07:35:38+02:00da leodar1
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